Il 17 luglio 2025 resterà una data che lacera la carne della coscienza umana. Intorno alle 10.30 del mattino, un attacco dell’esercito israeliano ha colpito la parrocchia cattolica latina della Sacra Famiglia a Gaza, provocando la morte di tre civili e il ferimento di almeno nove persone, alcune delle quali in condizioni critiche. Ferito, fortunatamente in modo lieve, anche il parroco padre Gabriel Romanelli, missionario dell’Istituto del Verbo Incarnato. L’edificio sacro stesso, simbolo di consolazione e rifugio per una comunità allo stremo, è stato colpito.

Non è più possibile tacere. Non si può accettare che la ferocia della guerra travolga anche gli spazi che dovrebbero essere inviolabili, come una chiesa. E non si può rimanere neutrali dinanzi all’evidente sproporzione tra potenza militare e corpi inermi, tra giustificazioni strategiche e vite innocenti, spesso quelle dei più piccoli.

Prima del 7 ottobre 2023, i cristiani presenti a Gaza erano poco più di un migliaio. Oggi, ne restano circa cinquecento, molti dei quali rifugiati proprio presso il complesso della Sacra Famiglia. Si erano affidati a quel luogo non solo per ripararsi dalle bombe, ma per conservare un frammento di dignità, per custodire la fede, per proteggere i figli, per continuare a credere nella fraternità umana e nella possibilità della pace.

Nel comunicato diffuso dal Patriarcato Latino di Gerusalemme si legge l’amara constatazione che “questa tragedia non è più grande o più terribile delle tante altre che hanno colpito Gaza”, eppure l’attacco a un santuario della fede rappresenta un’ulteriore soglia oltrepassata. Quando anche i luoghi di culto, nonostante la loro funzione protettiva e neutrale, diventano bersagli, allora l’intera civiltà è in pericolo.

Nella stessa mattinata, l’esercito israeliano ha compiuto intensi bombardamenti su campi di sfollati, causando almeno 21 vittime, la maggior parte bambini. Il giorno prima, altri 94 civili erano stati uccisi, 252 feriti. La cifra della devastazione non si esaurisce nei numeri: sono volti, famiglie, speranze spezzate, sogni irrecuperabili.

E mentre cresce il bilancio dei morti, si moltiplicano anche i segnali di un male che avvelena ogni lato del conflitto: quattro suicidi tra i soldati israeliani reduci dalle operazioni nella Striscia indicano un dolore che travolge anche gli strumenti della guerra. La spirale di violenza è senza ritorno se non si ferma ora.

È giunto il tempo di una parola profetica chiara e di una pressione internazionale inequivocabile. È giunto il tempo che la diplomazia non sia al servizio dell’ambiguità o della paura, ma della verità e della pace.

Papa Leone XIV, informato dell’attacco, ha espresso tramite il Cardinale Parolin la sua “profonda tristezza per la perdita di vite umane”, assicurando la sua vicinanza spirituale alla parrocchia colpita. Nel suo telegramma rinnova l’appello a un cessate il fuoco immediato, un dialogo sincero, una riconciliazione autentica.

È un appello che non può restare inascoltato. La comunità internazionale deve garantire la protezione dei civili e dei luoghi sacri, come impone il diritto umanitario internazionale. Ma deve anche avere il coraggio di dire che esistono responsabilità precise, e che il silenzio complice davanti alla morte è anch’esso una forma di violenza.

Noi credenti, noi cristiani, noi che ogni giorno invochiamo il Dio della vita, della misericordia, della pace, non possiamo più limitarci a pregare. Dobbiamo gridare. Dobbiamo denunciare. Dobbiamo restare accanto a ogni vittima, senza cedere alla logica della contrapposizione, ma nemmeno a quella dell’indifferenza.

A Gaza, oggi, non è stata colpita solo una parrocchia. È stato trafitto il cuore della fede. E con esso, anche il cuore dell’umanità.

“La violenza non potrà mai costruire la pace” — aveva detto san Giovanni Paolo II.

Oggi, mentre il fuoco divora le speranze di tanti innocenti, questa verità risuona come un grido di giustizia.

Che la voce del Papa, della Chiesa e degli uomini e donne di buona volontà non sia più un sussurro, ma un tuono che interrompa il frastuono delle armi.