Da Giovanni XXIII a Leone XIV, il filo rosso di una Chiesa che sceglie la vita invece della nostalgia: dai “profeti di sventura” al rinnovamento conciliare, contro la tentazione esoterica del rito e l’elitismo spirituale che ferì Benedetto XVI.

Nel giorno della Memoria liturgica di San Giovanni XXIII, risuona il suo grido profetico contro i “profeti di sventura”. Il Concilio Vaticano II non fu una rottura, ma una rinascita. Dai pontificati di Giovanni Paolo II, Benedetto XVI, Francesco e Leone XIV emerge un’unica certezza: non si poteva andare avanti così. Il danno dei tradizionalisti alla comunione ecclesiale è stato profondo, fino a logorare il pontificato di Benedetto XVI. Oggi il cattolicesimo di rito romano cresce nell’orbe intero, segno di una Chiesa viva che continua a parlare tutte le lingue dello Spirito.

C’erano momenti nella storia della Chiesa in cui non si poteva più andare avanti così. Giovanni XXIII lo capì con l’intuizione dei santi e la saggezza dei padri: non si trattava di inventare qualcosa di nuovo, ma di permettere alla grazia di respirare di nuovo. Il mondo cambiava — e la Chiesa, pur senza cambiare il Vangelo, doveva cambiare volto.

Oggi, nella sua memoria liturgica, non celebriamo solo il “Papa buono” delle carezze ai bambini e del sorriso disarmante, ma l’uomo che ebbe il coraggio di dire che la paura non può essere un programma pastorale. Che il Vangelo non è un museo da difendere, ma una sorgente da riaprire.

Una Chiesa che stava soffocando

Negli anni che precedettero il Concilio Vaticano II, la Chiesa di rito latino appariva grandiosa e universale, ma anche stanca, ingessata, paralizzata da un linguaggio che il mondo non comprendeva più.

Era un corpo bellissimo ma con il respiro corto.

Il latino — lingua sacra e venerabile — non era più la lingua dei popoli: era diventato il linguaggio dei soli iniziati. Le formule, le rubriche, le cerimonie, tutto rischiava di chiudersi in un cerchio autoreferenziale, incapace di dire al mondo la tenerezza del Vangelo.

Giovanni XXIII intuì che non si poteva andare avanti così.

Bisognava aprire le finestre, come disse lui stesso, per far entrare aria fresca.

Non per far uscire la Tradizione, ma per lasciar entrare lo Spirito.

L’ottimismo del Vangelo contro i profeti di sventura

Nel discorso d’apertura del Concilio, Gaudet Mater Ecclesia, il Papa stigmatizzò quelli che chiamò “profeti di sventura”, coloro che vedevano solo pericoli e corruzione, che sognavano una Chiesa piccola, chiusa, custodita come un fortino.

Questi profeti non sono mai scomparsi.

Si sono solo moltiplicati, cambiando veste e strumenti: oggi si esprimono in blog, canali video, rubriche pseudo-teologiche, invocando un passato che non è mai esistito come immaginano.

Ma il danno che causano è enorme.

Non solo perché dividono la comunità, ma perché distorcono la fede: la trasformano in un sistema di potere e di purezza, in un gioco di codici e appartenenze.

La deriva esoterica del rito

Dietro molte rivendicazioni di “tradizione” si nasconde un fenomeno più pericoloso: l’esoterizzazione della liturgia.

Quando il rito diventa simbolo di élite, quando si celebra per pochi “eletti” che conoscono le regole segrete, la liturgia smette di essere epifania del Mistero e diventa linguaggio per iniziati.

È lo gnosticismo che si traveste da ortodossia.

E da lì all’idolatria del rito, il passo è breve.

Questa è la grande malattia spirituale che Giovanni Paolo II, Benedetto XVI, Francesco e Leone XIV hanno dovuto fronteggiare: la trasformazione della fede in un codice estetico, della liturgia in un totem, della dottrina in un’arma.

Il dramma di Benedetto XVI

Tra tutti, Benedetto XVI visse questo dramma con la sensibilità di un padre ferito.

Aveva creduto nella possibilità di una riconciliazione liturgica, di una “riforma nella continuità”, e con grande generosità aveva aperto spiragli con il Summorum Pontificum. Ma vide presto che il suo gesto veniva manipolato da coloro che egli stesso, da teologo, aveva sempre criticato: i teologi del sospetto, i nostalgici del potere sacro, gli amici dell’esoterismo clericale.

Nel suo ultimo incontro con il clero di Roma, il 14 febbraio 2013, disse con serenità e dolore:

«Non possiamo semplicemente tornare indietro. Non si può fermare lo Spirito. La Chiesa è viva, e la vita è cammino».

Fu la confessione più sincera di un uomo che aveva visto la Chiesa dividersi proprio a causa di ciò che amava: la liturgia.

Capì che il suo ministero non poteva continuare sotto il peso di chi, nel nome della Tradizione, stava disfacendo la comunione.

La ferita dei tradizionalisti, e la loro sistematica disobbedienza mascherata da zelo, furono tra i fattori più dolorosi di quel pontificato.

Il Concilio come conversione permanente

Giovanni XXIII non immaginò il Concilio come un evento amministrativo, ma come un’esperienza di Spirito: una Pentecoste.

Il suo sguardo profetico vedeva già che il mondo sarebbe diventato un orbe cattolico, una Chiesa di mille culture, lingue e popoli.

E oggi, paradossalmente, proprio mentre alcuni si rinchiudono nel sogno di una “romanità” senza tempo, il cattolicesimo di rito latino si estende meravigliosamente in Africa, in Asia, in America Latina.

Là dove la Messa non è in latino, ma in lingue vive, e dove il rito non è un rifugio ma un invio.

Questa è la Chiesa che Giovanni XXIII sognava: non un’arca di Noè chiusa nel diluvio del mondo, ma una vela aperta al vento dello Spirito.

Da Leone XIII a Leone XIV: il filo della speranza

Il nuovo Papa, Leone XIV, figlio spirituale di una lunga genealogia conciliare, non ha paura di dirlo:

la vera Tradizione non è ripetere, ma trasmettere.

Non è rimanere fermi, ma essere radicati mentre si cammina.

Perché la Tradizione è come l’albero: solo se cresce, rimane vivo.

In continuità con Francesco, egli sa che la sfida non è contro i tradizionalisti, ma contro la paura che essi incarnano: la paura del mondo, la paura del futuro, la paura della libertà di Dio.

E come Giovanni XXIII, anche lui sembra dirci:

“Non abbiate paura. La Chiesa non si difende, si dona.”

La primavera che non finisce

Oggi, a più di sessant’anni dall’apertura del Concilio, la tentazione di chiudersi ritorna.

Ma anche il respiro dello Spirito ritorna — ogni volta che un cristiano sceglie di amare invece di giudicare, di ascoltare invece di accusare, di celebrare invece di controllare.

Giovanni XXIII ci ha insegnato che il Vangelo non ha paura del mondo.

E che la Chiesa, per restare fedele al suo Signore, deve saper rinascere dalle sue ceneri.

Non si poteva andare avanti così — e non si può tornare indietro adesso.

Perché il fuoco che arde nel cuore del Concilio non è finito: è solo diventato più vasto, più umano, più universale.

È il fuoco della Parola che continua a farsi carne, in ogni lingua, in ogni tempo, in ogni cuore che osa credere che Dio non smette mai di parlare.