Il riconoscimento della Palestina da parte della Francia all’ONU, accompagnato dal discorso di Emmanuel Macron che ha fatto vibrare la sala dell’Assemblea generale, è un atto politico che segna un solco profondo. Parigi ha voluto dire al mondo che non si può più rimandare la pace, che i due popoli devono avere due Stati e che la sicurezza di Israele non può essere usata come giustificazione per cancellare il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione.

Su questa linea, la Santa Sede non ha esitazioni. Leone XIV, nel suo recente intervento al Corpo diplomatico, ha ribadito che “non esiste pace possibile se non nel riconoscimento reciproco di due popoli, due Stati, entrambi liberi e sicuri, e con Gerusalemme custodita come patrimonio comune dell’umanità”. È una posizione che non si limita alla diplomazia, ma che attinge alla radice evangelica: il diritto dei popoli non è una concessione da negoziare, ma una dignità da rispettare.

Non è un’idea nuova. Già San Giovanni Paolo II, nel 1993, sostenne gli Accordi di Oslo, salutandoli come “una speranza di pace” e incoraggiando israeliani e palestinesi a percorrere con coraggio la strada del dialogo. Benedetto XVI e Francesco hanno ribadito più volte questa linea, visitando la Terra Santa e invocando il riconoscimento reciproco. Oggi Leone XIV raccoglie quel testimone e lo rilancia in un tempo in cui la soluzione dei due Stati sembra allo stesso tempo vicina e fragile, possibile e continuamente minacciata.

E l’Italia? Qui sta il punto dolente. La premier Giorgia Meloni ha ribadito, ancora una volta, che non si può “definire lo Stato palestinese” in questa fase. Una posizione attendista che stride con il crescente consenso internazionale, e che rischia di relegare il nostro Paese in un angolo di irrilevanza diplomatica. Si parla di prudenza, ma la prudenza sembra avere un altro nome: interessi.

L’Italia è infatti troppo implicata con Israele a livello strategico ed economico per muoversi con libertà. Secondo i dati ufficiali dell’ICE e del Ministero delle Imprese, l’interscambio commerciale tra Italia e Israele ha superato nel 2023 i 5 miliardi di euro, con un incremento di oltre il 20% rispetto all’anno precedente. Roma ha accordi stretti sulla cybersicurezza, l’intelligenza artificiale, il settore energetico e militare, con commesse che valgono centinaia di milioni. Senza contare la cooperazione in materia di difesa, tecnologia satellitare e ricerca avanzata, che rende Tel Aviv un partner privilegiato per l’Italia nel Mediterraneo allargato.

Ma questa prudenza diventa un silenzio colpevole. Perché dire che “non si può definire lo Stato palestinese” significa, nei fatti, accettare che la guerra continui, che Gaza resti prigione a cielo aperto, che la Cisgiordania venga progressivamente inghiottita dalle colonie. E se davvero la preoccupazione fosse solo Hamas, la domanda è inevitabile: non sarà che la guerra, sotto pretesto di difendersi, serva in realtà a consolidare l’occupazione?

Intanto a Gaza la crisi umanitaria raggiunge livelli insostenibili. Le Nazioni Unite parlano di bambini scheletrici per la fame, di donne e anziani costretti a vivere senza cure mediche, di oltre un milione e mezzo di sfollati stipati in rifugi di fortuna. Ogni giorno porta con sé nuove vittime, e l’indifferenza della comunità internazionale diventa una seconda condanna per chi sopravvive alle bombe.

La voce di Leone XIV, limpida e ferma, richiama invece il mondo alla sua responsabilità: “Non è il tempo delle ambiguità, ma della verità. La pace richiede coraggio, perché sempre più esigente della guerra. Nessun calcolo strategico vale quanto la vita di un bambino innocente”.

Non è un grido isolato. In Terra Santa i patriarchi e i vescovi locali ripetono da mesi lo stesso appello, denunciando una guerra che calpesta il diritto internazionale e implorando la comunità mondiale di fermare l’ecatombe. Già nel 2023 il Patriarcato latino di Gerusalemme aveva parlato senza mezzi termini di “genocidio strisciante”, chiedendo di fermare immediatamente le operazioni militari e di riaprire il dialogo. Le comunità cristiane di Betlemme, Gerusalemme e Gaza vivono sulla propria pelle l’assedio, spesso senza voce sui grandi media. È da loro, dai “piccoli resti” della Chiesa nella terra di Gesù, che sale il grido più evangelico: pace, giustizia, riconciliazione.

L’Italia, purtroppo, si rifugia dietro il realismo politico, che in questo caso ha il sapore dell’opportunismo. È una contraddizione dolorosa per un Paese che ama definirsi ponte nel Mediterraneo e culla del diritto internazionale.

Eppure il tempo che ci separa dal Giubileo del 2025 può diventare un’occasione unica. Leone XIV ha chiesto che l’Anno Santo sia un tempo di riconciliazione universale, in cui nessuno popolo venga dimenticato e la dignità umana torni al centro. Gerusalemme, cuore ferito del Medio Oriente, può diventare ancora una volta il simbolo di una speranza che non delude. L’applauso che ha accolto Macron all’ONU non era solo per la Francia. Era per chi ha il coraggio di dire che la pace non può più aspettare. Che il Giubileo renda questo coraggio contagioso, anche per l’Italia.