Il Parlamento italiano ha approvato ieri una mozione a sostegno del piano di cessate il fuoco avanzato da Donald Trump e Benjamin Netanyahu per mettere fine alla guerra di Gaza. Una scelta che, se da un lato segnala la volontà di non isolarsi rispetto alla linea statunitense e israeliana, dall’altro mostra tutta l’ambiguità di un governo che esita ad allinearsi al crescente consenso internazionale sul riconoscimento di uno Stato palestinese.

L’ambiguità della politica italiana

Francia, Belgio, Portogallo, Canada, Australia e Gran Bretagna hanno già compiuto il passo: riconoscere la statualità palestinese come atto di giustizia e di equilibrio. L’Italia invece prende tempo, subordinando ogni apertura al rilascio degli ostaggi israeliani da parte di Hamas e al suo ritiro dalla scena politica. Condizioni che, nella sostanza, bloccano qualsiasi riconoscimento reale. La premier Giorgia Meloni, che nel 2015 invocava il riconoscimento della Palestina “sulla base della reciprocità”, oggi afferma che farlo sarebbe “controproducente”. Un cambio di rotta che ha il sapore di un calcolo geopolitico: rimanere vicini a Washington e compiacere un Trump in piena campagna elettorale.

L’opinione pubblica non ci sta

Eppure i sondaggi sono netti: quasi tre quarti degli italiani considerano quello di Israele a Gaza un genocidio; l’88% si dice favorevole al riconoscimento di uno Stato palestinese. Non solo numeri: decine di migliaia di cittadini sono scesi in piazza, i sindacati hanno proclamato scioperi generali, lavoratori e studenti hanno bloccato fabbriche, porti e università. Non è l’ennesima protesta passeggera, ma il segnale di una coscienza civile che non tollera più la sproporzione della violenza in corso.

Meloni e Tajani tra diplomazia e pragmatismo

Il ministro degli Esteri Antonio Tajani parla di un “barlume di speranza” nella proposta Trump-Netanyahu, ma nello stesso tempo apre alla possibilità di valutare sanzioni commerciali europee contro Israele. Segno che persino dentro il governo c’è consapevolezza che la sproporzione delle armi e l’uso della fame come strumento di guerra non possono essere ignorati. La premier invece attacca i sindacati per gli scioperi: “Non aiuteranno i palestinesi, creeranno solo problemi agli italiani”. Un refrain già sentito: minimizzare le voci di piazza, dimenticando che fu proprio grazie agli scioperi del ’43 che l’Italia ritrovò la via della libertà.

Una scelta simbolica, ma necessaria

Gli storici ricordano che il riconoscimento dello Stato palestinese non cambierebbe subito la realtà sul campo. Ma la politica vive anche di simboli. Dire oggi che i palestinesi hanno lo stesso diritto degli israeliani a vivere in pace e sicurezza nel proprio Stato significa segnare una rotta diversa. L’Italia invece continua a barcamenarsi tra memoria dell’Olocausto, interessi strategici con Israele e la necessità di non irritare Washington.

La vera domanda

Il punto è: quanto ancora la politica potrà ignorare la voce del proprio popolo? L’Italia, culla del diritto e della diplomazia, può davvero limitarsi a un atto di subalternità? O non dovrebbe invece assumere il coraggio profetico di stare dalla parte di chi oggi è ridotto alla fame, come i bambini di Gaza, condannati collettivamente per colpe non loro?