Tutto comincia quasi per scherzo.
Un collega universitario mi dice che sta andando a trovare Nino D’Angelo. Sorrido, poi rilancio: «Se vuole, può incontrare anche un frate napoletano, tifoso del Napoli».
Una battuta. Invece la risposta arriva netta, semplice: «Va bene».
Così ci mettiamo in macchina e percorriamo qualche chilometro verso la Cassia, in direzione del lago di Bracciano.
Nessuna attesa solenne, nessun rituale da star.
Nino ci riceve, ma sta terminando una telefonata importante.
Ci chiede di aspettare.
Crede di finire presto, ma il tempo si allunga. Nessun imbarazzo: già in quel dettaglio c’è una misura umana delle cose, lontana dalla fretta e dall’esibizione.
Quando torna, gli racconto un episodio che porto sempre con me: la perfetta letizia di san Francesco. Francesco e frate Leone, stanchi, bagnati, affamati, respinti dal frate portinaio in una notte d’inverno, eppure liberi, non turbati, capaci di riconoscere anche nelle prove la presenza di Cristo, fonte di vera gioia.
Nino ascolta con attenzione. Dice di essere credente, ma che non conosceva quel bell’aneddoto.
Rimane colpito. Poi si alza e dice una cosa semplice: «Mo’ però assettateve, nun ve ne jate senza piglià almeno ’o cafè (Ora però sedetevi e non ve ne andate senza almeno prendere un caffè) ».
È da lì che il cliché comincia a sgretolarsi. Rimarremo insieme per due ore!
Vedendomi in saio, Nino inizia a raccontare. Non per esibizione, ma come chi riconosce un terreno comune.
Ricorda un prete che lo ha letteralmente tolto dalla strada. «A Natale – dice – io ricevevo un solo giocattolo». Fa una pausa. «Una pistola di plastica». Un simbolo, più che un regalo. Il confine sottile tra il gioco e il destino.
La scuola, allora, era quasi un optional. Non per disprezzo, ma per necessità.
Mancavano i soldi, mancava il tempo, mancavano persino le parole. Poi arrivò quel prete.
Lo accolse all’oratorio, gli fece giocare a calcio balilla gratis – perché anche il gioco, per un bambino povero, è una forma di salvezza – e soprattutto lo convinse ad andare a scuola. A restarci.
La sua maestra diceva una frase che Nino non ha mai dimenticato: «È un poeta che non sa parlare».
Aveva idee bellissime, immagini vive, una sensibilità rara. Ma faceva errori ortografici. Tanti. Come se il pensiero corresse più veloce delle mani. Da lì nasce il titolo del suo libro autobiografico: non una giustificazione, ma una dichiarazione di verità. Il riscatto non passa sempre dalla perfezione, ma dalla fedeltà a ciò che si è.
È nato a San Pietro a Patierno, quartiere povero di Napoli.
Primo di sei fratelli. Ha visto sua madre piangere per pagare la pigione di casa.
Un frate cappuccino del convento di Sant’Efrem lo ospitava, lo faceva girare nei locali a cantare per racimolare qualche spicciolo.
Non favole edificanti: vita vera.
In quel momento capisco che molte sue canzoni non nascono da un’idea, ma da una ferita abitata.
Racconta di una sera al pianoforte, del desiderio di rivedere sua madre scomparsa prematuramente e di una preghiera diventata canto:
«E voglio a te, a te ca tiene ’o munno ’mbraccia» (e voglio te che porti il mondo in braccio).
Una supplica più che una canzone, cantata ancora oggi nelle parrocchie di Napoli.
Non un Dio lontano, ma un Dio che regge il mondo come si regge un figlio.
E ancora: «e voglio a te, a te ca ce annascunne ’a faccia» (e voglio te che ci nascondi il volto), quando il dolore è troppo forte per essere guardato in faccia.
Fino a quell’invocazione che è quasi una definizione di fede popolare: «e voglio a te, ca saie ’a chiave ’e tutte ’e porte» (e voglio te che sei la chiave di tutte le porte. Non la scorciatoia, ma la chiave).
E allora il comune denominatore diventa chiaro: non è la musica, è l’origine non rinnegata.
Tre uomini del Sud, seduti attorno a un tavolo: un economista come Luciano Vasapollo, un frate francescano, un cantante popolare. Nessuno che si vergogni da dove viene. Nessuno che abbia bisogno di inventarsi altro.
Arriva inevitabilmente Maradona.
Padre Alfonso è stato davvero ragazzo della Curva B. Nino D’Angelo voce di un popolo che nel Napoli ha visto una promessa di riscatto. Vasapollo racconta di Cuba, dei suoi viaggi accademici, di Diego che si curava lì, amico di Fidel Castro. «Salutami Nino», gli diceva. Così nasce un’amicizia. Non da copertina, ma da appartenenza.
Nino parla dei figli, della famiglia, dell’amore per Annamaria, sua moglie, dei nipotini.
Dice che alla fine di ogni concerto invita i giovani a mettere da parte il telefonino: «Bisogna parlarsi guardandosi negli occhi».
Vive a Roma, ma torna sempre a Napoli. Perché Napoli non si visita: si abita. È lì che scrive.
Fra un anno e mezzo compirà settant’anni. Stanno preparando un grande concerto allo stadio Maradona. Un nuovo disco.
Parla poi del cinema. Mario Merola lo considerava il suo erede. Ma Nino capì che la sceneggiata finiva con Merola. Lui doveva parlare ai giovani. Così nacque Nu jeans e ’na maglietta, titolo nato mentre sua moglie stirava in casa. Poi l’incontro con un uomo chiave della Titanus, altri film, una popolarità diversa. Sul set conobbe Bombolo, al secolo Franco Lechner, ancora più noto per essere la spalla di Thomas Milian, er Monnezza. Dietro la risata facile, un uomo innamorato della famiglia e dei valori semplici, della famiglia, della fedeltà.
Quando si arriva a Napoli, Nino non indulge nella retorica. Dice che oggi tutti l’hanno “scoperta” grazie ai social.
Ma Napoli resta con le sue ferite. E qui tornano parole dure, quasi profetiche, della canzone ’O schiavo e ’o rre (lo schiavo e il re).
«Ma comme se fa a dicere viva l’Italia / campanno senza vivere, zumpanno ’e guaie» (Ma come si fa a dire viva l’Italia/ campando senza vivere, saltando sui guai).
Un’Italia di governanti che chiedono applausi, ma lascia i suoi figli stanchi.
«Sentite gente cu ’e braccia stancate / vuie ca ’a fatica ve site ’nventata» (ascoltate la gente con le braccia stanche, voi che la fatica ve la siete inventata).
È la dignità del lavoro umiliata, «’a libertà pigliata a schiaffe d’’o padrone» (la libertà presa a schiaffi dal padrone). Non è una canzone politica: è una radiografia morale.
Nino dice di voler bene a Napoli senza entrare in politica. Perché la politica passa, la dignità resta.
E su una cosa concordiamo subito: essere tifosi del Napoli non è solo calcio. È un simbolo. Di speranza. Di riscatto possibile.
L’incontro si chiude con qualche foto davanti al poster del caschetto biondo degli anni Ottanta, poi davanti alla locandina de I Falchi, film del figlio Toni, di cui Nino ha curato la colonna sonora. Purtame cu te (Portami con te) non è solo una canzone d’amore: è il desiderio di non restare soli nel tratto più difficile della strada.
Recitiamo insieme un’Ave Maria e un eterno riposo per i nostri genitori. Anch’io ho perso da poco mio padre. Ci salutiamo con una benedizione semplice, carica di quella speranza ostinata che la gente del Sud conosce bene.
Persone autentiche. Amicizie vere.
Perché, come diceva Mario Merola, ’o zappatore nun se scorda ’a mamma.
E nemmeno la propria storia.
Qui è “Perfetta letizia”.
