All’ONU, la relatrice speciale Reem Alsalem chiede il bando mondiale dell’utero in affitto: «Le donne non sono incubatrici umane». Il grazie alla ministra Roccella e ai Paesi che sostengono la dignità della maternità.

Nel corso della Conferenza mondiale sulle donne all’ONU, la relatrice Reem Alsalem ha definito la maternità surrogata «una forma di violenza e sfruttamento contro donne e bambini». Appoggio dell’Italia e di vari Paesi africani al Rapporto che invita a bandire la Gestazione per altri a livello globale. «Non esiste il diritto di avere un figlio: esiste il diritto del bambino a non essere venduto».

C’è un confine che nessuna modernità, per quanto sofisticata, può valicare senza smarrire se stessa: quello che separa la libertà dalla mercificazione della vita.

A New York, nel Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite, la relatrice speciale Reem Alsalem ha avuto il coraggio di dirlo con chiarezza cristallina: «Le donne non sono incubatrici umane, la maternità surrogata è violenza».

Una frase che ha attraversato la sala come una lama di verità in mezzo a un lessico globalizzato che spesso confonde la libertà con il mercato, e i diritti con i desideri.

È un momento storico: per la prima volta un documento ufficiale dell’ONU chiede agli Stati di bandire l’utero in affitto, riconoscendo che la “Gestazione per altri” (Gpa) non è una nuova forma di genitorialità solidale, ma un sistema che sfrutta la povertà, manipola la maternità e trasforma il corpo in una funzione biologica da appaltare.

La verità che fa tremare l’ideologia

Nel suo rapporto, Alsalem non parla per astrazione ma per esperienza: ha ascoltato madri surrogate, psicologi, giuristi, medici e bambini nati da tali contratti.

Ne esce un quadro devastante: sofferenze psicologiche, traumi da separazione, perdita d’identità.

Il neonato è strappato dalla madre che lo ha portato in grembo — non una “gestante” anonima, ma una persona con cui quel piccolo ha già instaurato un legame corporeo e affettivo totale.

Ridurre tutto a una transazione significa spezzare, con atto contrattuale, ciò che è più sacro: la relazione primaria tra madre e figlio.

Non si tratta solo di etica cattolica o di sensibilità religiosa, ma di antropologia universale.

La maternità surrogata mina le fondamenta stesse della dignità umana, perché infrange due diritti naturali: quello della donna a non essere sfruttata nel corpo e quello del bambino a conoscere e vivere l’abbraccio di chi lo ha generato.

La voce dell’Italia e il grazie di Reem Alsalem

Non è un caso che tra le voci più chiare, in Assemblea, si sia levata quella dell’Italia, attraverso la ministra Eugenia Roccella, che ha ribadito:

«La separazione innaturale del bambino dalla madre è disumana. Non può essere solo una clausola di un contratto».

Parole semplici e verissime, che restituiscono umanità a un dibattito spesso dominato da tecnicismi e da un linguaggio “inclusivo” che finisce per escludere proprio chi soffre.

E la relatrice Alsalem, con un gesto di riconoscenza non scontato, ha ringraziato pubblicamente il nostro Paese e altri Stati africani (Camerun, Etiopia, Nigeria, Egitto) per aver sostenuto il Rapporto.

In un’epoca in cui l’Occidente confonde il progresso con l’assenza di limiti, è paradossalmente il Sud del mondo — quello più povero e spesso sfruttato in queste pratiche — a ricordarci che la libertà non è un lusso, ma una responsabilità verso la vita.

Una libertà che non si compra

I Paesi contrari al bando — tra cui Canada, Australia e Spagna — hanno evocato il principio di body autonomy, la libertà di disporre del proprio corpo.

Ma il corpo non è un oggetto privato: è il luogo in cui la vita accade, il segno visibile della relazione.

Quando una donna “cede” il proprio grembo, non esercita libertà, ma subisce un condizionamento economico o psicologico.

Come ricordava Giovanni Paolo II nella Mulieris dignitatem, la maternità è “dono e non dominio”, e nessun dono può essere venduto senza snaturarsi.

E lo stesso Papa Francesco, nel Messaggio al Forum delle famiglie del 2023, definì la maternità surrogata “una pratica deplorevole che ferisce la donna e il bambino, basata sullo sfruttamento”.

Il diritto del bambino: non di nascere “da”, ma di essere “per”

Dietro la retorica della “nuova genitorialità” si nasconde una distorsione profonda: si parla sempre del diritto ad avere un figlio, mai del diritto del figlio a essere amato.

Come ha ribadito Alsalem nel suo intervento finale:

«Non esiste un diritto umano ad avere un figlio. Esiste il diritto del bambino a non essere oggetto di compravendita».

È una frase che basterebbe da sola a fondare un’etica nuova.

Perché un figlio non si “commissiona”, si accoglie.

E la maternità non si “offre in subappalto”, si vive come mistero di dono e sacrificio.

Nessuna clausola contrattuale potrà mai garantire quella tenerezza che solo il contatto materno trasmette, e che nessun laboratorio può replicare.

Un appello alla coscienza del mondo

La proposta della relatrice ONU — creare una piattaforma intergovernativa per monitorare e limitare la surrogazione — è un primo passo concreto verso una moratoria globale.

Ma serve di più: serve un nuovo consenso morale, capace di riconoscere che la vita non è un prodotto.

In fondo, questo non è solo un tema femminile, ma una questione di civiltà.

E forse, un giorno, come accadde con la schiavitù, anche la maternità surrogata sarà vista per ciò che è: una forma di dominio travestita da libertà.

Quel giorno, potremo dire che il mondo ha imparato ad amare davvero — senza possedere, senza comprare, senza violare.