Quando lo Stato chiude gli occhi, la violenza diventa sistema

Un ragazzo di appena 18 anni, fragile e solo, è stato stuprato e torturato per due giorni nel carcere di Marassi da quattro compagni di cella adulti, mentre la polizia penitenziaria “non si accorgeva di nulla”. Non è un fatto di cronaca nera, ma una ferita aperta nello Stato di diritto. In un sistema penitenziario al collasso, dove il sovraffollamento e l’assenza di vigilanza diventano norma, la vittima non è solo il giovane abusato, ma la dignità della Repubblica intera.

Nel letto di un ospedale di Genova, sedato e piantonato, giace un ragazzo di diciotto anni. Ha il volto tatuato dai suoi aguzzini, il corpo martoriato da due giorni e mezzo di violenza sessuale e psicologica, e un’anima che nessuna medicina potrà lenire. Non è una vittima della guerra. Non è una vittima della strada. È una vittima dello Stato.

La vicenda di Marassi — un carcere noto, non un lager dimenticato — interroga le fondamenta stesse della nostra civiltà giuridica. Il giovane, appena maggiorenne e proveniente da una comunità per tossicodipendenti, era in attesa di giudizio per una rapina di poco conto. Invece di ricevere attenzione e vigilanza, è stato gettato in una cella con quattro uomini adulti — due italiani e due stranieri —, tutti già “esperti” di detenzione, di quella dura. Il risultato è stato una carneficina silenziosa. Stupro, sevizie, tatuaggi forzati sul volto. Un sequestro durato oltre 48 ore in uno spazio sorvegliato da telecamere e agenti. O almeno, in teoria.

L’assenza dello Stato

Come può, in una struttura penitenziaria italiana nel 2025, consumarsi un tale orrore senza che nessuno veda, senta o intervenga? L’interrogativo non è solo morale, è giuridico e politico. Come ha detto il garante dei detenuti Doriano Saracino, “non è normale non accorgersi di nulla”. Eppure è accaduto. Non una telecamera, non un agente, non un responsabile ha interrotto quella violenza. Forse perché, come spesso accade, le celle sono troppe, i secondini pochi e gli occhi stanchi o chiusi per consuetudine.

Ma se è così, allora la responsabilità non si ferma alla porta del carcere. Sale più in alto: al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, al Ministero della Giustizia, a una politica che da anni ignora il grido delle carceri italiane. Perché quello di Genova non è un caso isolato: è la cartina di tornasole di un sistema che implode. Un sistema che rinuncia alla funzione rieducativa, che dimentica la parola “dignità”, che confonde il carcere con una discarica umana.

Quando anche le proteste diventano colpa

Il paradosso è che ora si valuta di applicare ai detenuti che hanno protestato contro questa violenza il reato di rivolta, introdotto dal decreto Sicurezza. Come se fossero loro i veri colpevoli, mentre un diciottenne veniva torturato nella cella accanto. Si potrà parlare di danneggiamenti, di lesioni agli agenti, ma non si può cancellare la realtà: quella protesta è figlia della mancanza di giustizia, non della sua negazione.

E a nulla servirà mettere altri ventidue detenuti in isolamento, se non si affronta il nodo vero: il sovraffollamento cronico, la carenza di personale, la totale assenza di supporto psicologico e sanitario per migliaia di reclusi. Lo hanno detto anche ANM, UCPI e accademici: così non si può più andare avanti. Non per umanitarismo, ma per costituzionalismo. Perché la dignità della persona — anche se tossicodipendente, anche se colpevole, anche se detenuto — è il fondamento della Repubblica.

Una grazia che grida giustizia

Ora si parla di grazia per questo ragazzo. Un atto dovuto, forse tardivo, ma che da solo non basta. La grazia non deve servire a lavare le coscienze, ma a rilanciare un’urgenza collettiva: cambiare il sistema penitenziario italiano. Non è questione di buonismo, è questione di legalità. Perché lo Stato che punisce deve essere, prima di tutto, uno Stato che protegge. Altrimenti la giustizia diventa barbarie.

Oggi ci indigniamo per questo giovane, stuprato e dimenticato in una cella. Ma domani? Continueremo a ignorare i segnali, a tagliare risorse, a criminalizzare i poveri, a chiudere gli occhi davanti all’orrore? Oppure capiremo, finalmente, che la civiltà di un Paese si misura da come tratta chi non può difendersi?

La risposta non può arrivare solo dai giudici. Deve venire dalla politica, dalla società, da ciascuno di noi. Perché un Paese che chiude un ragazzo in cella e dimentica di proteggerlo non è più uno Stato di diritto. È solo un carcere a cielo aperto.