Elzeviro sull’omelia di Leone XIV alla Messa della Notte di Natale 2025
L’omelia pronunciata da Leone XIV nella Notte di Natale 2025 si impone per una scelta di fondo chiara e coerente: spostare il baricentro della fede cristiana dallo sguardo verso l’alto alla contemplazione di ciò che è in basso. Non è un artificio retorico, ma una decisione teologica. Il Papa apre con un grande affresco antropologico: l’umanità che, per millenni, ha interrogato il cielo, proiettando sugli astri le risposte che non riusciva a trovare sulla terra. È una ricerca sincera, ma segnata dall’ambiguità: le stelle restano “mute”, gli oracoli confondono, la verità rimane sfuggente.
Il Natale irrompe come correzione radicale di questo fraintendimento originario. La luce non viene più cercata in alto, ma riconosciuta dove nessuno l’avrebbe immaginata: «un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia». Leone XIV costruisce qui l’asse portante dell’omelia: la rivelazione di Dio non avviene per elevazione, ma per abbassamento. L’onnipotenza divina si manifesta come impotenza, l’eloquenza del Verbo eterno come vagito, la santità dello Spirito come bisogno di cura e di calore. Non c’è estetizzazione della povertà, ma una teologia della prossimità.
Il Papa insiste su un punto decisivo: Dio non dona qualcosa, ma Sé stesso. L’Emmanuele non è una risposta concettuale ai problemi del mondo, bensì una presenza che entra nella storia per riscattarla dall’interno. In questa luce, il Natale non è evasione spirituale, ma criterio di discernimento storico. La citazione di Benedetto XVI del 2012 non è ornamentale: serve a ribadire che non c’è spazio per Dio dove non c’è spazio per l’uomo. La stalla diventa così più sacra del tempio, perché è il luogo in cui l’uomo non viene escluso.
L’omelia assume allora una forte valenza antropologica e sociale. Leone XIV denuncia, senza slogan, una “economia distorta” che riduce l’uomo a merce, contrapponendole il gesto di Dio che si fa uomo per restituire dignità a ogni persona. Il riferimento ad Agostino è essenziale: solo l’umiltà divina può risollevare una umanità schiacciata dalla propria superbia. Qui il Papa smaschera una tentazione sempre attuale: l’uomo che vuole diventare Dio per dominare, mentre Dio si fa uomo per liberare.
La pace, nell’omelia, non è un tema aggiunto, ma una conseguenza cristologica. Gli angeli non sono eserciti armati, ma “schiere disarmate e disarmanti”: la pace nasce dal cuore di Cristo come legame riconciliato tra cielo e terra. In questo senso, Leone XIV si colloca in continuità esplicita con Papa Francesco, richiamando il Giubileo come tempo di gratitudine e missione. Il Natale non chiude un ciclo, ma lo rilancia: ciò che è stato ricevuto deve essere testimoniato.
Il finale dell’omelia è ecclesiologicamente limpido. La Chiesa è chiamata a pronunciare una “parola nuova e vera”, che non è innovazione arbitraria ma ritorno alle virtù teologali: fede, carità, speranza. Il Natale è festa della fede perché Dio si fa uomo; della carità perché il dono del Figlio si traduce in dedizione fraterna; della speranza perché accende una luce che non teme la notte.
Leone XIV consegna così alla Chiesa un Natale esigente: non consolatorio, ma generativo. Non invita a fuggire dal buio della storia, ma a camminarvi dentro senza paura, certi che l’alba non viene dalle stelle, ma da un bambino deposto nella paglia. È in questo rovesciamento dello sguardo che il Natale conserva tutta la sua forza sovversiva e salvifica.
