Il villaggio di Yelwata, nel cuore verde della Nigeria, è diventato un nome che pesa come un lamento. Nella notte del 13 giugno, centinaia di persone — cristiani, contadini, bambini — sono state massacrate da un gruppo armato di pastori Fulani, prevalentemente musulmani. Le case bruciate, i corpi carbonizzati, le cicatrici sulle schiene dei sopravvissuti: immagini che hanno attraversato il mondo come un grido silenzioso. Ma mentre il sangue gridava dalla terra, la politica ha cominciato a gridare su Internet.
La morte e la parola
Negli Stati Uniti, senatori come Ted Cruz hanno parlato apertamente di “genocidio cristiano”, presentando un disegno di legge per sanzionare funzionari nigeriani ritenuti complici della violenza.
Altri, come il commentatore televisivo Bill Maher, hanno rilanciato l’idea che “in Nigeria si stia compiendo un genocidio peggiore di quello di Gaza”.
Parole forti, forse sincere, ma che rivelano un rischio: trasformare il dolore in arma geopolitica.
Anche nel Regno Unito, vescovi e pastori della Chiesa d’Inghilterra hanno denunciato la persecuzione dei cristiani, mentre la Santa Sede — per bocca del cardinale Pietro Parolin — ha invitato alla prudenza, ricordando che “non si tratta principalmente di un conflitto religioso, ma di tensioni sociali e territoriali”.
Una violenza intrecciata: fede, terra e clima
È vero: i cristiani della “cintura centrale” nigeriana sono sotto attacco, e le vittime di Yelwata lo dimostrano.
Ma è altrettanto vero che il conflitto non nasce dal Vangelo o dal Corano, bensì da una spirale di vendette e povertà.
Il cambiamento climatico, la crescita demografica, la scarsità di terre e pascoli, l’arrivo di armi dal nord destabilizzato da Boko Haram: tutto contribuisce a un equilibrio esplosivo.
Le leggi che vietano il pascolo libero, pensate per proteggere gli agricoltori cristiani, hanno esasperato la comunità Fulani, che si è sentita perseguitata.
“Quando ci tolgono il bestiame, ci tolgono la vita”, ha detto uno dei loro leader locali, Ardo Risku.
Così la rabbia di un popolo nomade si è intrecciata con la paura dei villaggi fissi: una guerra di poveri in cui la religione è divenuta la maschera della disperazione.
L’Occidente e la trappola dello scontro di civiltà
Da anni, alcuni settori politici ed evangelici americani leggono la Nigeria come un nuovo “campo di battaglia tra cristianesimo e islam”.
È una visione comoda, perché trasforma una tragedia complessa in una favola morale: i buoni e i cattivi, i martiri e i carnefici.
Ma la realtà è più dolorosa e più vera: in Nigeria le vittime sono anche musulmane, e la logica della vendetta ha cancellato i confini della fede.
Come ha scritto un ricercatore francese, “queste narrazioni sono pericolose perché alimentano il conflitto: aiutano a raccogliere fondi in Occidente, ma seminano divisione in Africa”.
Là dove i missionari costruiscono scuole e ospedali comuni, i politici costruiscono miti.
La croce nella cenere
A Yelwata, la chiesa cattolica di San Giuseppe è oggi rifugio e ospedale.
Padre Jonathan Ukuma celebra la Messa del 7 ottobre — giorno della Madonna del Rosario — ricordando che “la fede non è un’arma ma una ferita che si apre alla speranza”.
Il Vangelo proclamato è quello delle Beatitudini: “Beati i perseguitati per la giustizia”, non “beati i vendicati per onore”.
Lì, tra le rovine e il silenzio, il cristianesimo ritrova la sua verità: non come identità da difendere, ma come promessa da vivere.
E la vera domanda non è se in Nigeria sia in corso un genocidio, ma se il mondo sia ancora capace di distinguere tra fede e propaganda, tra compassione e calcolo.
La pace dei poveri
La Nigeria, terra di 300 etnie e due grandi religioni, è lo specchio di un mondo interdipendente: ricco di risorse, povero di giustizia.
Là dove il grano cresce accanto ai machete, la pace non può venire dai satelliti americani né dalle sanzioni di Washington, ma da un nuovo patto sociale che restituisca alla terra la sua sacralità.
“Spezzate le spade e costruite vomeri” (Is 2,4): è la profezia che oggi risuona da Yelwata più forte che mai.
Non ci sono vincitori in Nigeria. Ci sono solo vittime che chiedono di non essere dimenticate.
