Il confronto tra nichilismo giuridico e human flourishing mette in luce una scelta di fondo che attraversa il diritto contemporaneo: accontentarsi di amministrare l’esistente o assumere il compito, più esigente e più nobile, di orientare la convivenza verso una fioritura autenticamente umana? Nel concetto di persona si radica la possibilità di questa seconda via. Solo un diritto che riconosca la dignità come fondamento e come fine può sottrarsi al vuoto del nichilismo e restituire alla democrazia la sua anima più profonda.
La condizione del diritto contemporaneo appare segnata da una tensione profonda, che non concerne soltanto le sue forme o le sue tecniche, ma investe il suo stesso orizzonte di senso. Lungo il crinale della modernità avanzata, il diritto sembra progressivamente smarrire la consapevolezza dei propri fondamenti pre-politici, ossia di quelle radici ontologiche ed etiche che precedono e legittimano l’esercizio della normatività. In tale smarrimento si inscrive ciò che può essere definito, con espressione ormai consolidata, nichilismo giuridico: non l’assenza di norme, bensì la loro svuotata indifferenza rispetto alla verità dell’umano. Il diritto, ridotto a mera procedura o a tecnica di regolazione del conflitto, tende così a separarsi dalla domanda sul giusto, accontentandosi di amministrare il possibile secondo logiche di efficienza, consenso o bilanciamento contingente. Contro questa deriva si staglia con particolare forza il concetto di persona umana, inteso non come costruzione giuridica o funzione dell’ordinamento, ma come presupposto originario e indisponibile della dimensione giuridico-politica. Nella persona si concentrano i fondamenti pre-politici dello Stato di diritto: essa precede il potere, lo misura e lo limita. La dignità personale, in quanto valore ontologico e non derivato, sottrae il diritto alla tentazione dell’arbitrio e lo richiama alla sua vocazione originaria di ordinamento della convivenza giusta. In questa prospettiva, il diritto non crea la persona, ma la riconosce; non la concede, ma le si conforma. È qui che il personalismo giuridico rivela la propria portata teorica: esso si offre come risposta radicale, e in un certo senso anticipatrice, alle forme contemporanee di nichilismo, riaffermando che non tutto è disponibile alla decisione politica e che il diritto trova il suo senso ultimo nella tutela dell’umano in quanto tale.
Personalismo giuridico e democrazia oltre le procedure
L’assunzione della persona come fondamento del diritto comporta una trasformazione profonda del modo stesso di intendere la democrazia. Una democrazia che si limiti alla correttezza delle procedure o alla neutralità formale delle regole rischia infatti di scivolare in una forma elegante di vuoto normativo, nella quale la legalità sopravvive mentre la giustizia si eclissa. Il nichilismo giuridico si manifesta proprio in questa scissione: il rispetto delle forme convive con l’indifferenza verso i fini, e il diritto diventa incapace di orientare il vivere comune verso il bene. Il personalismo giuridico consente di oltrepassare tale riduzione, restituendo alla democrazia una dimensione sostanziale. La persona, in quanto essere intrinsecamente relazionale, non è un atomo isolato né una mera variabile del sistema, ma il principio ordinatore dell’intero spazio pubblico. Ne consegue che la legittimità dell’ordinamento non si esaurisce nella produzione formale delle norme, bensì si misura sulla loro capacità di riconoscere, promuovere e proteggere la dignità personale. La democrazia, così intesa, non è soltanto metodo decisionale, ma forma etica della convivenza: essa vive di presupposti che non può produrre da sé, ma che deve continuamente custodire. In questa luce, il personalismo si configura come un’antropologia normativa capace di ricomporre la frattura tra diritto e giustizia. Esso sottrae il diritto tanto all’assolutizzazione del potere quanto alla dissoluzione relativistica dei valori, riaffermando che la libertà politica trova il proprio senso solo se orientata alla persona e alla sua irriducibile dignità. Il diritto torna così a essere non semplice strumento di governo, ma luogo simbolico e istituzionale nel quale una comunità riconosce ciò che ritiene indisponibile.
Human flourishing, vulnerabilità e giustizia inclusiva
È in questo orizzonte che il concetto di human flourishing acquista una rilevanza decisiva per il pensiero giuridico e politico. La fioritura umana non coincide con il mero benessere materiale né con la soddisfazione delle preferenze individuali, ma designa una condizione di realizzazione integrale della persona, nella quale libertà, relazionalità, responsabilità e senso trovano una composizione armonica. Assumere lo human flourishing come fine implicito dell’ordinamento significa riconoscere che il diritto non è chiamato soltanto a prevenire il danno, ma a creare le condizioni perché ogni persona possa sviluppare le proprie potenzialità. Questa prospettiva impone una particolare attenzione ai soggetti fragili e vulnerabili, che costituiscono il banco di prova della giustizia di un ordinamento. La vulnerabilità non è una deviazione dall’umano, ma una sua dimensione costitutiva. Un diritto personalista, orientato allo human flourishing, non misura la propria efficacia sulla base dell’individuo astrattamente autosufficiente, bensì sulla capacità di includere chi rischia di essere escluso, marginalizzato o reso invisibile. La giustizia, in tal senso, si rivela inseparabile dalla solidarietà.
