C’è un limite oltre il quale non si può più tacere. Quel limite è stato superato. Gaza è diventata un esperimento di sterminio lento, accurato, metodico. Non bastavano i bombardamenti quotidiani, i quartieri rasi al suolo, le scuole e gli ospedali colpiti. Ora si aggiunge un’arma silenziosa, ma altrettanto letale: la fame.
Sotto l’egida di un’alleanza cinica tra il governo israeliano e la Casa Bianca trumpiana, la Striscia è stata trasformata in un bunker a cielo aperto. Si blocca ogni accesso, si distruggono i panifici, si impedisce il transito dei camion con aiuti umanitari. Un’intera popolazione, un milione e mezzo di civili – metà dei quali bambini – viene deliberatamente privata del diritto più elementare: mangiare per sopravvivere.
E ora, in un’ipocrisia che grida vendetta, si tenta di gestire questa carestia pianificata con una fondazione “umanitaria” made in USA, la Gaza Humanitarian Foundation, che distribuirà 1.750 calorie al giorno sotto il controllo di contractor armati e militari israeliani. Non è un’iniziativa umanitaria: è un campo di internamento. Un lager dissimulato da centro logistico. Un nuovo tipo di apartheid calorico, dove la vita viene misurata in calorie contate a freddo e con il mitra in spalla.
Il silenzio dell’Europa è assordante. L’indecenza dell’Occidente che, dopo aver invocato per anni i “valori liberali”, si gira dall’altra parte di fronte al crimine più infame: l’affamare un popolo. Nessun razzo palestinese, nessuna milizia armata può giustificare questo abominio. Non si uccide di fame un’intera popolazione per punire il nemico. È inaccettabile sul piano politico, morale, giuridico.
Il silenzio dell’Occidente è assordante.
Israele distrugge panifici, i più
deboli muoiono di fame.
Il genocidio a fuoco lento
I numeri sono già una sentenza: 57 bambini morti di fame. Oltre 70.000 casi di malnutrizione acuta tra minori. Centinaia di migliaia senza accesso a cibo e acqua. Una generazione di corpi consumati, occhi spenti, gambe sottili come rami. Gaza oggi non è un teatro di guerra: è un campo di sterminio per fame, una Guernica permanente e disconosciuta. E Netanyahu ne è l’architetto.
Lo si dice da mesi: il piano israeliano non è salvare gli ostaggi, ma svuotare la Striscia. Premere sulle masse affamate, piegarle allo sfinimento, spingerle verso il sud, costringerle – “volontariamente” – ad andarsene. Pulizia etnica senza bisogno di deportazioni, basta lasciare che il corpo ceda prima dello spirito.
Il patto tra fame e geopolitica
Donald Trump, tornato protagonista della scena globale, non condanna: organizza. Il suo silenzio è strategico. L’invio di pacchi alimentari non è un gesto di pietà, è una manovra per legittimare la colonizzazione. Anche Biden, prima di lui, aveva provato a bypassare l’ONU con soluzioni tecnocratiche – ricordate il porto galleggiante? – finite nel nulla.
E ora si rispolvera il vecchio schema della “fondazione filantropica” controllata da ex militari e funzionari. L’unico vero obiettivo? Costruire una governance senza i palestinesi. Un’autorità umanitaria sotto controllo occidentale, con Israele a fare da padrone armato. Un laboratorio per l’apartheid umanitario del futuro.
L’ipocrisia internazionale
L’ONU denuncia, l’Unrwa grida, l’Unicef lancia allarmi. Ma nessuno ha il coraggio di fare il passo decisivo: riconoscere che quello in corso è un crimine contro l’umanità. Che Israele sta utilizzando la fame come arma di guerra. Che Gaza è stata trasformata in un Auschwitz senza camere a gas, dove il genocidio avanza giorno dopo giorno nella complicità generale.
Chi ancora parla di “diritto alla difesa” dimentica che la fame è un’arma più crudele delle bombe. Più lenta, più inesorabile, più disumana. Il diritto internazionale è chiaro: affamare intenzionalmente una popolazione civile è un crimine di guerra. E chi lo permette, lo giustifica, lo organizza, è complice.
I volti della fame
Rahaf, 12 anni, non riesce più a camminare. Le sue ossa sporgono, i capelli cadono. Vuole solo uova, carne, qualcosa che non sia solo riso e dolore. I suoi fratelli la imboccano, la lavano, la cambiano. Ma stanno morendo anche loro. Badawi, padre di nove figli, prega di morire in un bombardamento pur di non vedere più i suoi piccoli chiedergli pane. Radi nasconde dieci pezzi di pane in un sacchetto nero come un contrabbandiere di vita. Yamen, sette anni, piange di fame in un ospedale senza cure, con le ossa rotte. Osama, cinque anni, pesa nove chili. Yousef, cinque mesi, non ha latte né madre che possa allattarlo.
Non sono “effetti collaterali”. Sono le vittime di una guerra in cui la fame è progettata, la malnutrizione è una strategia e la disperazione è una leva geopolitica.
Una sola parola
Ci resta una sola parola: vergogna. Per chi affama. Per chi tace. Per chi calcola. Per chi si gira dall’altra parte. E per chi continua a parlare di “equilibrio” tra oppressi e oppressori, tra colonizzatori e colonizzati, tra fame e forza.
Gaza è oggi il punto più basso della nostra civiltà. E non ci sarà pace nel mondo se non si romperà questo silenzio criminale. La fame è un crimine. E chi la tollera, la ripeterà.