Lettera Apostolica “In unitate fidei” di Papa Leone XIV in occasione del 1700° anniversario del Concilio di Nicea
C’è qualcosa di sorprendentemente semplice – quasi disarmante – nella Lettera apostolica In unitate fidei con cui Leone XIV apre il suo viaggio a Nicea e in Türkiye. Mentre il mondo conta missili, frontiere e sondaggi, il Papa decide di rimettere al centro una domanda antica e decisiva: «Voi chi dite che io sia?». È la stessa che Gesù pone a Cesarea di Filippo e che, secoli dopo, agitò i vescovi riuniti a Nicea. Oggi, in pieno Giubileo della Speranza, ritorna come criterio di discernimento ecclesiale e come chiave di lettura del presente.
La Lettera non è un trattato, e neppure un compendio di storia dei Concili. È piuttosto un invito a tornare al cuore: al Credo recitato quasi distrattamente nelle nostre Messe domenicali, ma in realtà capace di reggere il peso delle paure contemporanee. Guerre, disastri climatici, squilibri economici, crisi di fede: Leone XIV non li nasconde, li nomina. Ma chiede alla Chiesa di non rispondere con l’ennesima analisi sociologica, bensì con un atto di fede più consapevole: «Crediamo in Gesù Cristo, Figlio di Dio, per noi e per la nostra salvezza».
Il Papa compie una scelta precisa: invece di difendere la fede arretrando dietro mura identitarie, la difende andando alla sorgente. Ricorda che a Nicea non si discuteva di un dettaglio tecnico, ma della sostanza stessa del cristianesimo. Ario, con una logica seducente, rendeva Dio più “presentabile”: un Altissimo lontano, protetto da un Figlio intermedio, creato, quasi un grande angelo. I Padri conciliari, al contrario, ebbero l’audacia opposta: confessarono che il Figlio è «della stessa sostanza del Padre». In altre parole, che è Dio come il Padre, non un suo surrogato; e che proprio per questo può salvarci davvero.
Leone XIV insiste su questo punto con una nota pastorale molto sua: il Dio di Nicea non è un’idea filosofica, ma il Dio «che si è fatto nostro prossimo», quello che incontriamo nel povero, nel malato, nel migrante, nel condannato. La definizione homooúsios non nasce per compiacere i metafisici di professione, ma per difendere il realismo dell’Incarnazione: se Cristo non è vero Dio, allora la sua croce è solo un martirio esemplare; se non è vero uomo, allora la nostra umanità resta fuori dalla salvezza. Nicea, ricorda il Papa, ha custodito insieme queste due verità, evitando sia un Dio distante, sia una spiritualità disincarnata.
Colpisce che, parlando di “divinizzazione”, Leone XIV non scivoli in spiritualismi evasivi. Riprende Atanasio – «Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventasse Dio» – ma subito precisa: non si tratta di un’auto-deificazione narcisistica. È esattamente il contrario della tentazione del serpente, quel «sarete come Dio» che oggi ritorna nelle ideologie tecnocratiche e nelle promesse di onnipotenza digitale. La vera divinizzazione, dice il Papa, è la vera umanizzazione: lasciarsi trasformare dalla grazia fino a vivere da figli, non da piccoli dèi in competizione con il Creatore.
In controluce, la Lettera sembra anche una critica gentile ad alcune nostre abitudini ecclesiali. Quando Leone XIV ricorda che molti hanno deformato il volto di Dio parlando solo di un «Dio vendicatore che incute terrore», è difficile non pensare a certe derive moralistiche, alla facilità con cui si evoca il castigo divino per spiegare ogni crisi. Nicea, al contrario, consegna alla Chiesa il volto del Dio che scende, che si svuota, che lava i piedi, che si lascia toccare nelle piaghe. Un Dio che non si impone, ma si espone.
C’è poi un secondo asse portante del testo: l’ecumenismo. Il Papa ricorda che quel Credo niceno-costantinopolitano recitato a ogni domenica non è “nostro” dei cattolici: è patrimonio condiviso con gli ortodossi e, in larga parte, con le comunità nate dalla Riforma. In un tempo in cui nel discorso pubblico si torna a giocare con gli scontri di civiltà, In unitate fidei ricorda che esiste un’altra geografia: quella di un’unica comunità di battezzati sparsa nel mondo, capace – se vuole – di diventare segno di riconciliazione in mezzo alle fratture.
Leone XIV non indulge al lirismo facile. Parla di un ecumenismo «rivolto al futuro», che non è né nostalgia di un passato idealizzato né rassegnazione allo status quo. Invita a «lasciarsi alle spalle controversie teologiche che hanno perso la loro ragion d’essere» – affermazione forte, soprattutto se pronunciata alla vigilia di un incontro a Nicea, luogo simbolico anche di molte lacerazioni successive. Ma lo fa indicando un criterio chiaro: non negoziare sul Credo, semmai lasciarsi purificare da esso. Non un’unione per ribasso, ma una comunione più alta, dove il dogma non è arma, bensì fondamento condiviso.
Sul fondo rimane una domanda tutt’altro che teorica: che ne è oggi della «ricezione interiore» del Credo? Leone XIV ha il coraggio di ammettere che spesso lo recitiamo come una formula automatica, senza lasciarci ferire dalle sue parole. E allora le sue domande – «Che cosa significa Dio per me? Ci sono idoli più importanti di Lui?» – non sono esercizi di spiritualità individuale, ma criteri di discernimento ecclesiale e sociale. Un popolo che dice «credo in un solo Dio, creatore del cielo e della terra» non può rassegnarsi alla devastazione ambientale; una comunità che proclama «per noi uomini e per la nostra salvezza» non può continuare a considerare “normali” le guerre di logoramento e le frontiere di filo spinato.
Non è un caso che la Lettera si chiuda con una preghiera allo Spirito Santo che ha il sapore di un mandato: «Indicaci le vie da percorrere, affinché torniamo a essere ciò che siamo in Cristo: una sola cosa, perché il mondo creda». In un’epoca di identità frammentate e appartenenze liquide, la richiesta è paradossale: non diventare altro, ma tornare ad essere ciò che già siamo in virtù del Battesimo. È forse questo il gesto più radicale di Leone XIV: invece di proporre nuovi slogan, rimanda al Gloria Patri sussurrato alla fine di ogni salmo, a quel segno di croce tracciato frettolosamente prima di uscire di casa.
L’elzeviro, a ben vedere, lo suggerisce il Papa stesso tra le righe: il 1700° anniversario di Nicea non è una ricorrenza per specialisti, ma un’occasione per chiedersi se, nella polifonia inquieta del nostro tempo, il cuore della Chiesa sa ancora battere «all’unisono» con quel “un solo Signore, una sola fede, un solo Battesimo» che l’apostolo Paolo consegnava agli Efesini. Se accadrà, questo giubileo di fede potrà diventare – anche fuori dalle sacrestie – la più inattesa delle notizie: che, in un mondo che frammenta e divide, esiste ancora un popolo che crede nell’unità, non come omologazione, ma come dono trinitario. E che prova, con tutti i suoi limiti, a viverla.
