Mentre Washington alza muri doganali e il presidente Trump usa un linguaggio che spesso scivola nell’offensivo, dall’altra parte dell’Eurasia si muove un’altra narrazione: quella della cooperazione e del dialogo, per quanto strumentale possa apparire. È questa la cornice della maxi-cumbre dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (OCS) a Tianjin, dove la presenza contemporanea di Narendra Modi, Vladimir Putin e Xi Jinping manda un messaggio chiaro: il Sud globale non vuole restare spettatore in un ordine mondiale percepito come fragile e squilibrato.

Fondata nel 2001 con obiettivi di sicurezza e lotta al terrorismo, l’OCS è diventata in pochi anni un foro che raccoglie potenze regionali e globali — dalla Cina all’India, dal Pakistan all’Iran — fino a lambire l’Europa orientale. Non è una nuova Nato, ma una piattaforma che consente a Paesi con interessi divergenti di discutere, negoziare, mostrarsi come interlocutori credibili. Ed è già molto, in un tempo segnato da guerre e sanzioni.

La foto che arriva da Tianjin è di quelle che pesano: Modi stringe la mano a Xi dopo sette anni di gelo e dopo i morti al confine himalayano del 2020. È un segnale che Pechino e Nuova Delhi, pur rivali, non possono permettersi di essere nemici permanenti. La stessa India, colpita dalle tariffe americane del 50%, guarda a Oriente non per cambiare campo, ma per non trovarsi isolata.

Putin, dal canto suo, approfitta della cornice per rinsaldare i legami con l’unico partner capace di garantire ossigeno alla sua economia sotto embargo: la Cina. Xi, anfitrione attento, alterna bilaterali e banchetti, proponendo la retorica di un “ordine multipolare più giusto” e di una cooperazione basata sul rispetto delle differenze nazionali. Non è un caso che tra gli ospiti vi siano anche Turchia, Egitto, Armenia, Paesi che oscillano tra mondi diversi e cercano spazi di manovra.

La differenza di stile rispetto a Washington è lampante. Dove Trump brandisce i dazi come clava politica, Xi propone la retorica della stabilità e della prosperità condivisa. Non è detto che sia più sincero, ma appare più attraente agli occhi di governi che cercano margini di autonomia.

La lezione che emerge da Tianjin è chiara: la geografia del potere non è più monocolore. Se gli Stati Uniti vogliono davvero dialogare con l’India, non possono ridurre il rapporto a un braccio di ferro commerciale o a un riflesso della contesa con la Cina. E se l’India vuole restare fedele alla sua vocazione democratica, non può illudersi che la sola amicizia personale tra leader sia sufficiente a garantire stabilità.

Il mondo che si è riunito in Cina in questi giorni non è alternativo all’Occidente, ma segnala che non esiste più un solo centro di gravità. In un tempo di conflitti e populismi, l’OCS propone un multipolarismo che, pur con molte ambiguità, intercetta il desiderio di sicurezza e sviluppo. Per l’Europa e per l’Italia è il momento di non limitarsi a osservare, ma di rilanciare una diplomazia che ricordi a tutti che la cooperazione non si costruisce contro qualcuno, ma per il bene comune.