Accoglienza strutturata nei territori
Firmato da Matteo Piantedosi e dal cardinale Matteo Zuppi, il nuovo accordo tra governo e Cei istituisce un tavolo tecnico permanente per coordinare l’inclusione dei migranti vulnerabili. Un passo concreto oltre le polemiche ideologiche, che mostra come solidarietà e legalità possano camminare insieme.
Nel mare spesso agitato delle polemiche politiche sul tema migranti, l’accordo siglato l’11 giugno 2025 tra il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e il cardinale Matteo Zuppi, presidente della CEI, rappresenta una riva solida. È un’intesa che non si limita a buoni propositi, ma istituisce strumenti operativi e tracciabili: un tavolo tecnico permanente, protocolli con le prefetture, e un’attenzione prioritaria ai migranti più vulnerabili. Il tutto in nome di una parola oggi tanto abusata quanto vitale: sinergia.
Non è la prima volta che Stato e Chiesa collaborano sui temi dell’accoglienza. Ma questa volta c’è una consapevolezza nuova: le migrazioni non sono un’emergenza, sono un dato strutturale del nostro tempo. Il protocollo non rincorre dunque l’onda emotiva o le pressioni internazionali, bensì si inserisce in una logica di medio periodo, rinnovabile e replicabile. Non è una toppa a una falla, ma l’architrave per costruire ponti sicuri.
Il ministro Piantedosi ha parlato giustamente di “conciliare legalità e solidarietà”. È un cambio di passo importante. Perché, al di là dei proclami da talk show, un’accoglienza fuori dalle regole alimenta proprio quelle insicurezze e derive xenofobe che la politica spesso denuncia senza affrontare. In questo senso, la collaborazione con le diocesi — e dunque con quella rete capillare di parrocchie, associazioni e volontari — non è solo un’opzione pastorale: è una necessità civile.
Zuppi, dal canto suo, ha ricordato che “i migranti non sono numeri o braccia”, ma persone con diritti e doveri. È un’affermazione che disinnesca due opposte e fallaci visioni: quella che riduce lo straniero a minaccia, e quella che lo idealizza come vittima perenne. La realtà è più complessa. E proprio per questo richiede politiche lungimiranti, capaci di coinvolgere i territori, le famiglie, le comunità.
L’accordo Cei-Viminale mostra che lo scontro ideologico può essere superato da un realismo evangelico: l’accoglienza non come slogan, ma come metodo. Non si tratta solo di “aprire i porti” o di “chiuderli”, ma di aprire percorsi. Legali, sicuri, rispettosi della dignità umana e del contesto sociale.
Certo, tutto questo richiede una vigilanza costante. Le buone intenzioni devono tradursi in atti amministrativi coerenti, finanziamenti adeguati, formazione degli operatori e monitoraggio indipendente. Ma il segnale è chiaro: la Chiesa italiana non si sottrae alla responsabilità civile e si conferma alleata nella costruzione di una società più giusta. E lo Stato, almeno in questo caso, dimostra di saper dialogare senza pregiudizi con chi — come la Chiesa — ha nella carità un principio d’azione e non una strategia politica.
In un tempo in cui la parola “dialogo” sembra spesso sbiadita, questo protocollo è un atto concreto. Un patto di corresponsabilità. E forse anche un invito a noi tutti: a smettere di parlare dei migranti e cominciare a parlare con loro. Perché, come ci ricorda il Vangelo, “ero straniero e mi avete accolto” non è un’opzione accessoria per i cristiani. È il criterio con cui saremo giudicati. E anche — perché no — il metro con cui misurare la civiltà di un Paese.