Riflessioni sul “martirio della castità” tra memoria, rischi e nuove domande pastorali

Nel fine settimana in cui l’attenzione mondiale della Chiesa era concentrata su Roma, con la canonizzazione di Pier Giorgio Frassati e Carlo Acutis, a una centinaia di chilometri da Budapest si celebrava un’altra pagina di santità: la beatificazione di Mária Magdolna Bódi, giovane ungherese uccisa nel 1945 da soldati sovietici durante un tentativo di violenza sessuale. Una vicenda forte, simbolica, ma che è passata quasi inosservata, oscurata dalla luce mediatica di due figure ormai entrate nell’immaginario collettivo dei giovani cattolici di oggi.

Non è la prima volta che accade: la storia della Chiesa conosce “differenze di attenzione” tra santi che diventano icone globali e altri che restano confinati nella memoria locale. È accaduto a Maria Goretti, la ragazzina laziale elevata agli onori degli altari nel 1950, in pieno clima di esaltazione della purezza, o ad Antonia Mesina, giovane pugliese uccisa nel 1935 mentre difendeva la propria dignità. Ed è accaduto anche all’estero: basti pensare a figure come la stessa Bódi, o ad altre martiri del Novecento segnate dalla brutalità delle guerre e delle dittature.

Queste beatificazioni riportano in primo piano la categoria teologica del “martirio della castità”, che ebbe particolare fortuna tra XIX e XX secolo. Tuttavia, oggi non si può evitare di interrogarsi criticamente sul senso di questa espressione. Molte vittime di violenza sessuale hanno fatto notare come essa rischi di generare un messaggio ambiguo: se la santità consiste nell’essere uccisi piuttosto che subire la violenza, chi è sopravvissuto al trauma dovrebbe sentirsi in colpa per non aver resistito fino alla morte? È un rischio reale, e la Chiesa non può ignorarlo.

La tradizione è più ricca di sfumature di quanto spesso si creda. Agostino, parlando dei saccheggi e delle violenze durante la caduta di Roma, scriveva che le vittime di stupro “non hanno punito su se stesse il crimine altrui”, e che la loro coscienza resta limpida davanti a Dio. Parole che liberano, e che dovrebbero tornare ad animare la pastorale, soprattutto in un’epoca in cui la sensibilità verso le ferite causate dalle violenze sessuali è cresciuta enormemente.

Il caso di Mária Magdolna Bódi non deve allora essere letto come un semplice ritorno a un modello rigido e colpevolizzante, ma come occasione per riflettere di nuovo sul rapporto tra corpo, libertà e grazia. La sua fedeltà al voto di verginità, sigillata col sangue, è una testimonianza alta e radicale, che non va banalizzata né contrapposta alle esperienze di chi ha subito violenza ed è sopravvissuto.

Il rischio, altrimenti, è quello di scivolare in una divisione “sessuata” della santità: ai ragazzi l’eroismo della carità sociale e della fede incarnata nella modernità (Frassati, Acutis), alle ragazze il martirio della verginità. È uno schema riduttivo, che non corrisponde né alla ricchezza del Vangelo né alla realtà della vita cristiana.

Le beatificazioni e canonizzazioni non sono mai semplici operazioni di memoria: esse ci parlano oggi. La voce di Mária Magdolna, insieme a quella di Maria Goretti e di tante altre giovani martiri, ci chiede di approfondire una riflessione ancora incompiuta: come la Chiesa accompagna le vittime di violenza? Quali parole sceglie per non raddoppiare il loro dolore? E come testimoniare la dignità inviolabile della persona senza cadere nel moralismo?

Papa Leone XIV, parlando dei giovani santi Frassati e Acutis, ha detto che la loro vita è “un invito a non sprecare la vita”. Lo stesso invito, seppur in un contesto diverso, viene dalla vicenda di Bódi: non sprecare la vita significa anche non sprecare il dolore, non rimuoverlo, ma trasformarlo in cammino di giustizia, di guarigione, di annuncio della dignità inviolabile di ogni creatura.