C’è una tensione sottile, quasi impercettibile, che attraversa l’aria tropicale di Manila in questi giorni. Non è la tempesta monsonica a preoccupare i palazzi del potere, ma qualcosa di più carsico: una crisi istituzionale travestita da procedura costituzionale. L’impeachment contro la vicepresidente Sara Duterte – figlia dell’ex presidente Rodrigo, dominatore del ciclo populista che ha segnato il Paese nell’ultimo decennio – non è solo una resa dei conti personale. È una lente attraverso cui si può scrutare l’anima contraddittoria delle Filippine. O, per meglio dire, i suoi futuri possibili.
Da settimane, il Parlamento si muove tra accuse e convocazioni, richieste di chiarimenti e interpretazioni giuridiche. I capi d’imputazione sono gravi – gestione opaca di fondi speciali, minacce all’integrità dell’ordine costituzionale, abusi di potere – eppure nessuno sembra convinto che siano questi i veri motivi. La politica, nelle Filippine, ha una grammatica che raramente coincide con quella del diritto. Qui il potere si misura per alleanze e genealogie, non per programmi.
Non è un mistero che la vicepresidente sia sempre più isolata da quando ha rotto il patto con Ferdinand “Bongbong” Marcos Jr., con cui aveva condiviso il ticket presidenziale nel 2022. Da allora, i due hanno seguito traiettorie divergenti: Marcos, figlio del dittatore, ha scelto il ritorno al caldo abbraccio degli Stati Uniti; Duterte, erede del nazional-populismo spregiudicato del padre, ha mantenuto un tono più ambiguo, se non propriamente sinofilo. Il destino di questa lotta intestina, così familiare nella storia asiatica, si gioca oggi dentro un’aula parlamentare che ospita molto più di un processo politico.
La questione, però, è tutt’altro che locale. Perché quando il Pacifico diventa la frontiera più calda del confronto tra superpotenze, ogni sommovimento interno assume risonanza globale. Le Filippine – isola tra le isole, nodo logistico e simbolico nel Mar Cinese Meridionale – non possono più permettersi il lusso dell’ambiguità. Con gli accordi militari rinnovati tra Manila e Washington, con le basi aperte agli aerei e ai droni statunitensi, con il timore crescente per la pressione navale cinese, ogni segnale lanciato da Marcos assume il tono di una scelta di campo.
L’impeachment di Sara Duterte, in questa prospettiva, somiglia allora meno a una normale dinamica istituzionale e più a una manovra chirurgica per rimuovere una figura dissonante, capace di parlare a un elettorato ancora nostalgico dell’“uomo forte”, ma troppo inaffidabile per gli equilibri regionali. Eppure, sarebbe un errore ridurre tutto a una guerra per procura. Le Filippine non sono solo un teatro. Sono anche attori. E la famiglia Duterte, con il suo radicamento popolare e la sua retorica identitaria, continua a influenzare l’immaginario di milioni di cittadini, specialmente nelle province meno connesse al centro politico e più esposte alla promessa di un ordine fondato sulla forza.
Nel frattempo, il processo continua, incerto e rumoroso. I media internazionali osservano, le ambasciate prendono appunti, gli strateghi militari aggiornano le mappe. Ma la verità è che nessuno può dire oggi se Sara Duterte cadrà o se, come accadde altre volte nella storia filippina, il tentativo di farla fuori finirà per rafforzarla. La memoria del padre, mai davvero archiviata, potrebbe tornare a infestare le urne del 2028. Oppure, il Paese potrebbe decidere di chiudere quella stagione, accettando la pax marcosiana come prezzo per una stabilità fragile, ma accettabile agli occhi delle cancellerie occidentali.
In questa ambiguità si gioca il futuro delle Filippine. Un Paese abituato a vivere nell’equilibrio instabile tra autoritarismo e democrazia, tra apertura e autarchia, tra Occidente e Oriente. Un arcipelago che non ha mai smesso di oscillare tra potenze, ma che oggi sembra chiamato, suo malgrado, a scegliere. Forse sarà proprio questo impeachment a costringere la Repubblica a guardarsi allo specchio e a rispondere alla domanda che elude da decenni: cosa vuol essere da grande?
La risposta, ancora una volta, non arriverà da una sentenza. Ma dalle onde profonde della storia.