Dopo decenni di oblio, l’Italia vuole tornare a scavare. Non si tratta di una metafora politica, ma del nuovo Programma nazionale di esplorazione mineraria (Pne), che punta alla riapertura di almeno 100 miniere dismesse, alla ricerca di materie prime “critiche e strategiche”: litio, terre rare, platino, bario, titanio, grafite. Un progetto che arriva 30 anni dopo l’ultimo investimento pubblico nel settore minerario e che si inserisce nella corsa globale alle risorse tecnologiche essenziali per auto elettriche, smartphone, droni, sistemi di difesa. Ma a chi giova davvero tutto questo?

L’Europa chiede, l’Italia obbedisce

L’input viene da Bruxelles: nel nome della sovranità strategica europea, si invitano gli Stati membri a ridurre la dipendenza dalla Cina per le forniture di materie prime indispensabili alla “transizione verde”. L’Italia risponde con entusiasmo, ben oltre la cautela scientifica: il governo, tramite il Comitato interministeriale per la transizione ecologica, approva un piano ambizioso, con un timido investimento iniziale (3,5 milioni di euro) e la promessa di esplorazioni ad “impatto ambientale contenuto”.

Eppure, dietro la retorica dell’innovazione sostenibile si intravede una corsa estrattivista classica, con gli stessi problemi di sempre: interessi economici opachi, privatizzazione dei profitti, socializzazione dei danni, tensioni territoriali, promesse di sviluppo industriale che rischiano di restare sulla carta.

Miniere per chi?

Attualmente, 94 concessioni minerarie sono attive in Italia, ma in gran parte al servizio dell’industria ceramica o edilizia. Il salto promesso è un altro: riportare l’Italia nel club dei paesi “strategici” per l’estrazione di litio, titanio e terre rare. Ma a chi verranno assegnati i giacimenti? A multinazionali straniere, come già accade in Sardegna e in Piemonte, o a imprese italiane senza know-how né capacità di raffinazione? Chi garantirà che l’estrazione resti sotto controllo pubblico e non diventi terreno fertile per speculazioni, delocalizzazioni camuffate e colonialismo interno?

Nel frattempo, si promettono “indicazioni preliminari agli investitori esteri”: insomma, si sventola la mappa geologica del Paese come un volantino promozionale. Ma la sovranità energetica non si costruisce con i dossier pubblicitari. Si costruisce con controllo pubblicofiliera nazionalegiustizia ambientale e sociale. Di tutto questo, nel Pne, si parla poco o nulla.

Il Sud ancora scavato

Come da copione, le aree di esplorazione coincidono con le regioni marginalizzate e più povere del Paese: Calabria (grafite), Campania (rocce vulcaniche), Sardegna (tungsteno e minerali storici), entroterra ligure (titanio). Ancora una volta, il Sud e le aree interne diventano il ventre molle della transizione ecologica, chiamate a pagare i costi ambientali della nuova industria verde.

Non sorprende che i depositi nel Parco del Beigua, in Liguria, siano già oggetto di attenzione e tensione: lì, dove si trova uno dei più importanti giacimenti di titanio d’Europa, le associazioni ambientaliste sono pronte a resistere.

La memoria corta del Paese scavato

Nel dopoguerra, l’Italia contava oltre 1.400 siti minerari attivi. Poi vennero le chiusure selvagge, i disastri ambientali, i villaggi abbandonati, i lavoratori licenziati, i rifiuti tossici abbandonati: oggi si stimano 150 milioni di metri cubi di scarti minerari da monitorare e bonificare. Eppure nessuno ha mai pagato per quelle ferite, né si è costruita una memoria critica dell’estrattivismo italiano. Ora si torna a scavare, ma senza una valutazione d’impatto sociale, senza una consultazione delle comunità locali, senza un piano per le bonifiche passate.

Nel nome della “green economy”, si riattiva una logica coloniale del sottosuolo, dove il Paese profondo è ancora una volta considerato riserva di risorse, non soggetto di scelta.

Le terre rare non sono neutre

La retorica delle terre rare per la pace verde è ingenua, se non ipocrita. La guerra in Ucraina ha reso evidente che le materie prime critiche sono anche armi geopolitiche: la Cina ne controlla oltre il 60%, e gli USA hanno risposto con piani di rilocalizzazione e protezionismo. Ma chi può garantire che la nuova corsa alle miniere italiane non finisca al servizio del complesso militare-industriale?

Il litio non alimenta solo auto elettriche, ma anche droni e missili intelligenti. Il boro è usato nei reattori nucleari. Il tungsteno nei proiettili perforanti. La pace energetica non è garantita dall’estrazione locale, ma da un altro modello di sviluppo.

Una vera transizione è fatta di limiti

Aprire nuove miniere per inseguire il miraggio della crescita verde rischia di perpetuare il paradigma dell’estrazione infinita in un pianeta finito. Il vero nodo non è come scavare meglio, ma quanto davvero ci serve scavare. Il problema non è solo il “dove”, ma il “per chi” e “perché”.

Serve una politica mineraria pubblica, fondata su:

  • partecipazione democratica dei territori;
  • proprietà collettiva delle risorse;
  • piani di compensazione ambientale e sociale;
  • ricerca su riciclo e riduzione dei consumi;
  • fine della retorica dello sviluppo senza limiti.

La transizione giusta, quella di cui il Paese ha bisogno, non scava nel passato industriale ma coltiva il futuro delle comunità.


Il Piano miniere, così com’è, non è un piano di sovranità, ma di rischio. Di privatizzazione delle ricchezze comuni, di esternalizzazione dei danni, di riattivazione delle disuguaglianze territoriali.

Se vogliamo davvero una politica mineraria utile al Paese, serve più Stato, più democrazia, più memoria. E meno narrazione green costruita per alimentare un altro ciclo di dipendenza industriale.

Scavare non basta. Occorre riscavare nella storia, e chiedersi se davvero questa volta sarà diverso. Oppure se, ancora una volta, sarà il Sud a pagare per l’elettricità del Nord.