Treni soppressi, porti chiusi, strade bloccate: i disagi di una giornata difficile raccontano anche altro. Migliaia di donne e uomini hanno scelto di fermarsi per dire che non si può restare in silenzio davanti al dolore di Gaza e al blocco della Flotilla. È la voce di un Paese che, pur tra tensioni e contrasti, rivendica il diritto alla pace come bene comune. Nella fatica di chi attende un treno o un aereo c’è anche la speranza che nessuno popolo debba più attendere giustizia.

Le manifestazioni che oggi hanno attraversato oltre cento città italiane a sostegno di Gaza e della “Flotilla della solidarietà” hanno avuto un impatto fortissimo, non solo sulla vita quotidiana, ma anche sulla coscienza civile del Paese. Binari occupati, tangenziali bloccate, porti paralizzati, aeroporti invasi: una giornata difficile per chi viaggiava, segnata da ritardi e cancellazioni. Ma al tempo stesso un segnale politico e sociale che non può essere liquidato come mera disobbedienza o come “weekend lungo”, per usare le parole polemiche della premier.

Si è trattato di una mobilitazione trasversale: studenti e sindacati, famiglie e associazioni, credenti e non credenti. Due milioni di persone, secondo la Cgil, hanno scelto di fermarsi e di scendere in piazza. Non tutti condividono i modi, e alcuni gesti violenti vanno condannati senza esitazioni. Ma resta un dato: l’Italia è stata percorsa da un grido collettivo che chiede pace, diritti e dignità per il popolo palestinese.

Il rischio, però, è che la rabbia e la sofferenza si trasformino solo in blocchi, in disagi, in contrapposizioni. Sarebbe una sconfitta. Una protesta di massa diventa profetica solo quando sa farsi proposta, quando riesce a custodire la forza della nonviolenza, quando non mette i più fragili (viaggiatori, malati, lavoratori pendolari) contro altri fragili.

La Chiesa lo ripete da mesi: non possiamo rimanere indifferenti davanti al dramma di Gaza. Leone XIV, raccogliendo l’eredità di Francesco, ha parlato di “un grido che interpella la coscienza dell’umanità”. E quel grido ha trovato eco nelle piazze italiane. Tocca ora alla politica dare risposte: non alimentare tensioni, non ridurre tutto a ordine pubblico, ma aprire spazi di mediazione diplomatica e di riconoscimento dello Stato palestinese, come già hanno fatto diversi Paesi europei.

Le manifestazioni hanno mostrato che l’Italia non è un Paese anestetizzato. C’è un popolo che sente l’ingiustizia e non vuole restare muto. E forse, in fondo, è da qui che si misura la vitalità di una democrazia: dalla capacità di trasformare il dolore di Gaza in impegno per la pace, senza cadere né nella tentazione dell’odio né nell’indifferenza del silenzio.