Nel 2024, in Italia, sono nati meno di 370 mila bambini. È il numero più basso da quando esiste l’Istat, il simbolo di un Paese che lentamente si spegne. La denatalità non è più una tendenza, ma una diagnosi: la società italiana è entrata in una fase di estinzione demografica, e con essa si dissolvono i presupposti della crescita economica, della solidarietà intergenerazionale, della coesione civile.
Siamo di fronte a una crisi più profonda del debito pubblico o della disoccupazione, perché tocca l’immaginario, i desideri e le paure di una generazione che non crede più nel futuro.
Fare figli, oggi, è diventato un atto controcorrente — e sempre più spesso, un lusso.
Perché non si fanno più figli
Le cause sono molteplici e intrecciate.
C’è la precarietà lavorativa che spinge i giovani a rimandare ogni scelta definitiva; ci sono salari fermi da vent’anni e un costo della vita che cresce a ritmi insostenibili.
Un affitto medio nelle grandi città assorbe oltre metà di uno stipendio; comprare casa è un miraggio; crescere un figlio costa, secondo l’Osservatorio Federconsumatori, tra i 7.000 e i 10.000 euro l’anno.
A questo si aggiunge un sistema di servizi per l’infanzia inadeguato: asili nido insufficienti, rette alte, orari inconciliabili con il lavoro.
Le famiglie vengono lasciate sole, spesso senza reti di sostegno, e la società non aiuta: mancano politiche per la conciliazione, mancano case accessibili, manca una cultura della genitorialità condivisa.
Ma il nodo non è solo economico.
C’è una crisi esistenziale: paura del domani, sfiducia nelle istituzioni, un individualismo esasperato che riduce la vita a consumo e prestazione.
Non si fanno più figli perché non si crede che il mondo valga la pena di essere ereditato.
La “patriota cristiana” di fronte al crollo demografico
In campagna elettorale Giorgia Meloni aveva promesso di combattere la denatalità come “madre e patriota cristiana”.
Ma dopo tre anni di governo, i numeri parlano da soli: nascite in calo, famiglie più povere, giovani sempre più scoraggiati.
L’Assegno unico universale, pur rappresentando un passo avanti, non ha prodotto l’effetto sperato; la riforma degli asili nido è rimasta parziale; i bonus una tantum hanno favorito chi era già in condizioni di stabilità, senza toccare il problema strutturale: la mancanza di lavoro stabile e di prospettive.
Il “piano demografico” promesso dal governo si è arenato tra annunci e tavoli tecnici.
E mentre si parla di “difendere la famiglia tradizionale”, milioni di giovani coppie non riescono nemmeno a formare una famiglia, né tradizionale né nuova: non ci si sposa più perché non ci si può permettere di vivere insieme.
Gli stranieri e la nuova frontiera del paradosso
Fino a pochi anni fa, si pensava che l’immigrazione avrebbe compensato il calo delle nascite.
Oggi anche la fecondità delle donne straniere è in forte discesa: da 2,5 figli per donna a meno di 1,8.
Vivono le stesse difficoltà degli italiani: affitti insostenibili, lavori precari, insicurezza sociale.
Così, mentre il dibattito politico continua a ruotare intorno alla paura dello “straniero”, sono proprio gli stranieri a tenere ancora viva la natalità in molte regioni del Nord.
Ma anche loro, ormai, cominciano a rinunciare.
È un segnale che il problema non è etnico, ma sistemico: un Paese che non investe nei figli, prima o poi, li perde tutti.
Il futuro negato
Un Paese senza bambini è un Paese che non ha più fiducia nel proprio futuro.
Le conseguenze sono devastanti: una popolazione che invecchia, una forza lavoro che si riduce, un sistema pensionistico sempre più insostenibile.
Tra vent’anni, ci saranno più ultrassettantenni che giovani sotto i trent’anni.
Chi lavorerà, chi pagherà le pensioni, chi si prenderà cura degli anziani?
Non basteranno i bonus, né le prediche sul “ritorno ai valori familiari”.
Serve una strategia di lungo periodo: salari dignitosi, case accessibili, un welfare moderno, scuole e servizi per l’infanzia diffusi, incentivi fiscali mirati e soprattutto una cultura della fiducia.
Bisogna ricostruire un clima sociale in cui fare un figlio non sia un rischio, ma un dono possibile.
Una questione di civiltà
La denatalità non è una faccenda privata: è una questione di civiltà.
Dietro ogni bambino che non nasce c’è una speranza che si spegne, un domani che si restringe.
Un governo davvero patriottico non dovrebbe difendere confini, ma generazioni; non alimentare la paura, ma restituire desiderio.
La maternità non può essere ridotta a slogan elettorale o a bandiera ideologica.
Richiede politiche, ma anche un cambio di sguardo: passare dal “quanto costa un figlio” al “quanto vale un figlio”.
Solo allora l’Italia potrà tornare a generare vita, e con essa futuro.
Perché la natalità non è un fatto biologico, ma un atto di fede nel domani — e la nostra crisi, prima di tutto, è una crisi di fede nel futuro.
