Dal caso Kirk all’editorialista del Washington Post: perché il dissenso non si uccide, né si licenzia

La libertà di espressione è da sempre uno dei pilastri delle democrazie moderne. Essa non si riduce a un principio giuridico, ma costituisce il terreno vivo sul quale cresce il dibattito pubblico, il confronto delle idee, la critica ai poteri e alle istituzioni. Negarla, limitarla o soffocarla non significa soltanto restringere un diritto individuale: significa indebolire il tessuto stesso di una società libera.

Proprio per questo, episodi come l’uccisione di Kirk – un commentatore scomodo, diventato bersaglio di chi non tollerava le sue posizioni – rappresentano una ferita gravissima non solo alla sua persona, ma al principio stesso che la sua voce incarnava: il diritto di parlare. Uccidere chi esprime un’opinione, per quanto radicale o urticante, è sempre un fallimento della civiltà e un arretramento della convivenza democratica. La violenza non elimina un’idea: la trasforma in un fantasma che aleggia con più forza, sottraendola al confronto e consegnandola al mito della vittima.

Non meno preoccupante, seppur in forme non sanguinose, è la tendenza crescente a silenziare il dissenso attraverso meccanismi di esclusione professionale. È quanto accaduto a Karen Attiah, nota editorialista del Washington Post. Il quotidiano di proprietà di Jeff Bezos l’ha licenziata dopo aver espresso opinioni controcorrente. Anche qui il messaggio rischia di essere devastante: non ti uccidiamo, ma ti togliamo il microfono, ti espelliamo dallo spazio pubblico della parola.

In entrambi i casi – la violenza fisica e la sanzione lavorativa – emerge un pericolo comune: l’idea che alcune opinioni possano e debbano essere cancellate invece che discusse. Ma la democrazia non vive di cancellazioni, vive di confronto. Quando un’idea è falsa, sbagliata, perfino offensiva, la risposta non può essere il silenzio imposto: dev’essere un’altra idea, più solida e convincente, capace di smascherarne le contraddizioni e proporre un orizzonte migliore.

La necessità del dibattito aperto

Soffocare il dissenso, infatti, non significa aver ragione: significa solo aver tolto all’altro la possibilità di parlare. E una vittoria così ottenuta non è una vittoria della verità, ma della forza. Una democrazia matura si riconosce non dal numero di opinioni uniformi che riesce a produrre, ma dalla capacità di accogliere e gestire le divergenze senza trasformarle in conflitto distruttivo.

Il filosofo John Stuart Mill, nel suo celebre On Liberty (1859), aveva già messo in guardia da questo rischio: anche un’opinione minoritaria, apparentemente falsa, custodisce un frammento di verità utile al dibattito comune. Sopprimerla è un danno per tutti, non solo per chi la esprime.

Il fantasma del terrorismo

La storia italiana insegna qualcosa. Negli anni ’70 e ’80, quando il dibattito politico degenerò in violenza, sorsero formazioni extraparlamentari paramilitari: le Brigate Rosse, Prima Linea, ma anche i gruppi eversivi di destra. Il risultato fu un Paese paralizzato dalla paura, in cui lo Stato rispose con leggi eccezionali e una repressione che lasciò cicatrici profonde.

Negli Stati Uniti, se il dibattito continuerà a essere soffocato anziché elaborato, il rischio è duplice:

  • da un lato, la nascita di movimenti armati che vedono nella violenza l’unico sbocco;
  • dall’altro, la risposta repressiva di un potere centrale che, invocando “ordine”, si avvicina a forme di dittatura oppressiva.

Trump, dal canto suo, ha subito sfruttato l’omicidio di Kirk per alimentare una narrativa repressiva: funerali solenni per l’influencer, discorsi pubblici in cui si invoca la pena di morte per l’assassino, e la moglie cattolica di Kirk che, invece di invocare perdono, parla apertamente di vendetta. Il vicepresidente Vance rilancia, proponendosi di “continuare l’opera” del commentatore ucciso.

La via da percorrere

Occorre allora ribadire con forza un principio semplice: le idee si combattono con le idee, non con le pallottole né con i licenziamenti. Questo non significa legittimare l’odio, la menzogna o l’insulto – che vanno contrastati con strumenti giuridici e culturali – ma significa riconoscere che il terreno della risposta deve restare quello della parola e della ragione, non quello della violenza o dell’esclusione.

Se la società contemporanea, polarizzata e fragile, impara a reagire alle opinioni scomode solo con la censura o l’aggressione, il risultato sarà un dibattito sempre più povero e una democrazia sempre più vuota. Al contrario, se saprà accogliere il dissenso e trasformarlo in occasione di confronto, allora la libertà di espressione continuerà a essere non solo un diritto scritto nelle costituzioni, ma un bene vissuto nella vita quotidiana.

Il caso di Kirk e il licenziamento dell’editorialista del Washington Post ci ricordano che la libertà di espressione non è mai garantita una volta per tutte: va custodita, difesa e continuamente ricreata. Non per proteggere il privilegio di chi parla, ma per difendere il diritto di tutti a crescere attraverso il dialogo.

In fondo, la grandezza di una società non si misura dal consenso unanime che sa ottenere, ma dalla libertà che concede a chi dissente.