Il Paese dei Cedri si appresta ad accogliere Leone XIV fra una settimana

C’è un paradosso in Libano: è minuscolo sulla carta geografica, eppure gigantesco nell’immaginario regionale. Ogni volta che la storia scricchiola tra Oriente e Occidente, quella striscia di terra tra mare e montagna — fragile, ferita, luminosa — torna ad essere un crocevia, un laboratorio, talvolta un monito.

In questi giorni, mentre Beirut attende Leone XIV come si attende un ospite capace di portare non solo parole ma conforto, il Paese dei Cedri rivela ancora una volta il suo destino: essere un luogo in cui il mondo si guarda allo specchio.

L’atmosfera è sospesa. I preparativi per l’arrivo del Papa hanno il sapore di una festa che si ostina, ostinatamente, contro la tristezza. Le campane che suoneranno all’atterraggio del volo papale non sono solo un gesto liturgico: sono il grido di un Paese che ha bisogno di sentirsi vivo. Un Paese che da anni cammina sul bordo di un crinale sottile: instabilità interna, pressioni esterne, crisi economica senza precedenti, una guerra “congelata” con Israele che continua comunque a mietere vittime.

E tuttavia — ed è questo il miracolo nascosto del Libano — la vita resiste.

E resiste come ha sempre fatto: attraverso la fede, l’ospitalità, la dignità.

Un Paese nato fragile e diventato indispensabile

Il Libano moderno nasce nel 1943, liberandosi del mandato francese. Ma la sua storia come mosaico di popoli e religioni è antica di millenni. Maroniti, sunniti, sciiti, drusi, greco-ortodossi, armeni… diciotto comunità che convivono su pochi chilometri.

Un equilibrio complicato, certo, ma anche un’esperienza unica al mondo.

È proprio questa pluralità — fragile e splendida — che ha reso il Libano un crocevia irrinunciabile nel Medio Oriente: per l’Islam, perché qui la presenza cristiana non è residua ma viva; per il cristianesimo, perché qui il dialogo interreligioso non è teoria ma vita quotidiana; per il mondo arabo, perché tante sue élite culturali sono passate da Beirut; per l’Occidente, perché qui si è potuto sempre leggere, nel bene e nel male, il grado di convivenza possibile tra mondi diversi.

Se il Libano crolla, crolla qualcosa di essenziale anche nel resto della regione.

Non è una retorica: è una realtà geopolitica.

Gli ultimi anni: il Paese che ha visto tutto

Negli ultimi cinque anni, il Libano è stato un compendio delle fragilità contemporanee: la crisi finanziaria del 2019 ha polverizzato i risparmi e gettato tre quarti della popolazione sotto la soglia di povertà; l’esplosione del porto di Beirut nel 2020 — una delle più devastanti del dopoguerra mondiale — è diventata la metafora di uno Stato disintegrato; il conflitto a bassa intensità con Israele ha continuato a ferire il Sud: 343 morti e 661 feriti nell’ultimo anno, un terzo civili; e come se non bastasse, la paralisi politica: un Paese che per mesi non è riuscito neppure ad eleggere il proprio Presidente.

Eppure, proprio in questa situazione estrema, si coglie ciò che il Libano è davvero:

un popolo che rifiuta di arrendersi.

La Chiesa come tessitura invisibile

Da decenni — ed è una delle cifre più belle del Paese — la Chiesa non è solo una presenza religiosa, ma sociale, culturale, educativa.

Scuole, ospedali, università, case per gli anziani, centri per i rifugiati: una rete capillare che ha tenuto in piedi intere regioni quando lo Stato era in ginocchio.

Non è un caso che l’attesa del Papa attraversi tutte le comunità: cristiani, musulmani, drusi.

Nel “Paese messaggio”, come Giovanni Paolo II lo definì, il Papa non arriva come un capo religioso straniero, ma come un garante morale di una convivenza che tutti sanno essere preziosa e fragile.

E i segni di speranza ci sono: la chiesa di San Giorgio a Yaroun, rasa al suolo dagli attacchi, che gli abitanti chiedono al Papa di benedire per poterla ricostruire; la preghiera virale di padre Joseph Salloum che affida il Libano al Signore “che conosce il suo strazio continuo”; le diocesi che radunano giovani e famiglie per la messa sul lungomare di Beirut, come se il mare potesse restituire al Paese un po’ della calma che gli manca.

Libano: un piccolo Stato con un grande destino

Guardare al Libano oggi significa capire molto del Medio Oriente di domani.

Il suo futuro non riguarda solo se stesso.

Il Libano è: a cartina di tornasole del rapporto tra sunniti e sciiti; il barometro del dialogo islamo-cristiano; – il termometro della politica israeliana; – il laboratorio dell’influenza iraniana; – l’orizzonte dell’impegno europeo nel Mediterraneo; – la prova della resistenza delle minoranze cristiane nella regione.

E soprattutto è un luogo di frontiera dove si misura la capacità — o l’incapacità — del mondo di proteggere i propri luoghi più vulnerabili.

L’attesa di Leone XIV: un Paese intero col fiato sospeso

Quando il Papa atterrerà a Beirut, le campane suoneranno per cinque minuti.

Cinque minuti che saranno un istante sospeso, una parentesi nel rumore del mondo.

La visita non risolverà i problemi. Ma «non tutto ciò che è importante risolve — molte cose importanti consolano», scriveva Simone Weil.

Il Libano non chiede al Papa miracoli. Chiede una cosa più semplice e più difficile: di essere visto, ascoltato, accompagnato.

E forse proprio questo è il senso più profondo di questo viaggio: dire a un piccolo Paese stremato che la sua storia conta ancora.

Che la sua vocazione non è finita. Che il Mediterraneo non può perdere il suo baluardo di convivenza.

E che — come promette Isaia — «ancora un poco e il Libano si cambierà in frutteto».

Un frutteto nasce sempre su una terra ferita. Ma non c’è frutteto senza speranza.