C’è qualcosa di profondamente europeo — nel senso peggiore del termine — nel rilancio di Emmanuel Macron sull’opportunità di “parlare con Vladimir Putin”. Un riflesso elegante, ben pettinato, moralmente presentabile. Ma anche tardivo, velleitario e, soprattutto, scollegato dalla realtà dei rapporti di forza. Perché la verità, che a Bruxelles e a Parigi si fatica ad ammettere, è brutale: chi discute davvero oggi del futuro dell’Ucraina sono gli Stati Uniti e la Russia. Punto.L’Europa, al massimo, commenta. O reagisce.
Macron riporta sul tavolo una questione antica — parlare o non parlare con Mosca — come se fosse ancora il 2022. Ma non lo è più. Da allora il conflitto è entrato in una fase di guerra d’attrito strategico, e il negoziato non è più una scelta morale bensì una variabile di potenza. Ed è qui che il “bonisme” macroniano mostra tutti i suoi limiti: l’idea che basti rimettere in moto il dialogo perché la storia torni negoziabile. Una visione nobile, ma ingenua. Cicerone pro domo sua, appunto: parlare serve a Macron soprattutto per riaffermare una centralità francese che, nei fatti, si è erosa.
La Russia di Vladimir Putin non ha alcuna urgenza di negoziare con l’Europa. Tratta — quando tratta — con Washington. Perché sa che lì si decidono sanzioni, linee rosse militari, flussi finanziari, garanzie di sicurezza. Il resto è teatro. E l’Europa, senza una politica estera unitaria e senza deterrenza credibile, resta platea.
La Francia, un tempo perno strategico del continente, appare oggi in caduta iberica: ambizione alta, capacità ridotta. Parigi vorrebbe guidare, ma non trascina. Propone, ma non determina. E mentre Macron parla di dialogo, Berlino si prepara a rimettere l’elmetto. La Germania, spinta da una nuova dottrina di sicurezza, accelera il riarmo, convinta che il tempo delle esitazioni sia finito. È un ritorno alla forza che inquieta molti partner europei, ma che segnala una cosa chiara: la politica estera, senza potenza, è retorica.
A Est, la Polonia vive la guerra non come dossier ma come minaccia esistenziale. Varsavia si sente sotto assedio, vede droni ovunque — quasi “in camera da letto” — e agisce di conseguenza: riarmo massiccio, linea durissima con Mosca, nessuna fiducia nei negoziati. Per i polacchi, parlare con Putin non è diplomazia: è un rischio.
E l’Italia? Il governo di Giorgia Meloni pratica una politica estera che è un colpo alla botte e uno al cerchio. Fortemente filo-atlantica, saldamente agganciata a Washington, ma attenta a non rompere del tutto con l’asse europeo. Roma non guida, ma accompagna. Non rompe, ma non innova. Scommette — come ha fatto anche Meloni — sull’idea che l’Ucraina potesse vincere sul campo. Una convinzione condivisa, non a caso, da Londra nel 2022.
Ed è qui che entra in scena la grave colpa storica dell’Inghilterra. Con Boris Johnson, Londra ebbe un ruolo decisivo nel bloccare i negoziati avviati nella primavera del 2022, convinta che Kiev potesse ottenere una vittoria militare netta. Quella scelta — oggi sempre più riconosciuta come azzardo strategico — ha prolungato la guerra, moltiplicato i morti, irrigidito le posizioni. È una responsabilità che pesa, anche se raramente viene ammessa.
In questo quadro, l’uscita di Macron appare più come una mossa di riposizionamento politico che come una reale strategia di pace. Parlare con Putin può avere senso solo se si ha qualcosa da offrire o da minacciare. L’Europa, oggi, non ha né l’una né l’altra cosa in misura sufficiente. È divisa, disallineata, attraversata da interessi divergenti. E soprattutto non decide.
La domanda non è dunque se sia giusto parlare con Putin. La domanda è: chi conta davvero quando si parla? Finché l’Europa non risolverà questo nodo — potenza, unità, strategia — ogni appello al dialogo resterà un esercizio di stile. Elegante, sì. Ma politicamente irrilevante.
