Quando un papa apre le porte della biblioteca privata del Palazzo Apostolico, non è mai un gesto neutro. Lì, dove solitamente siedono capi di Stato e leader religiosi, il 1° settembre Leone XIV ha ricevuto in udienza privata padre James Martin, gesuita statunitense e volto noto della pastorale con le persone LGBTQ. Un incontro di mezz’ora, sorridente e cordiale, che non poteva non essere letto come un segnale.

La scelta del luogo

La cornice non è irrilevante. Leone XIV ha scelto il cuore istituzionale del Vaticano, e non la residenza di Santa Marta o un ambiente informale. È un modo per dire che non si tratta di un favore personale, né di una simpatia privata, ma di un riconoscimento pubblico: Martin è un interlocutore legittimo, il suo ministero non è ai margini, ma ha cittadinanza nella Chiesa.

Continuità e discontinuità

Le parole del gesuita dopo l’incontro sono eloquenti: «Il Papa mi ha incoraggiato a continuare il mio ministero. Ho ritrovato la stessa apertura di Francesco». Non è difficile leggere qui una continuità con il predecessore: Francesco aveva già dato visibilità al lavoro di Martin, tra nomine vaticane e udienze personali. Ma ogni papa imprime un tono diverso. Se Bergoglio aveva parlato a braccio – talvolta anche in termini spiazzanti e contraddittori – Leone XIV sembra preferire gesti sobri, istituzionali, che però non lasciano equivoci: l’accoglienza non si arresta, anzi viene ribadita.

Pace e unità, non bandiere ideologiche

Non è stata solo una conversazione sul tema LGBTQ. Padre Martin stesso ha raccontato che il Papa si è mostrato soprattutto preoccupato per la pace nel mondo – Ucraina, Gaza, Myanmar – e per l’unità della Chiesa. È questo il contesto in cui leggere anche la sua attenzione ai fedeli omosessuali: non come battaglia di parte, ma come tassello di un progetto più ampio, che punta a ricucire fratture e a non lasciare nessuno escluso.

Il Catechismo e il Magistero

L’insegnamento della Chiesa rimane chiaro: «Un numero non trascurabile di uomini e di donne presentano tendenze omosessuali profondamente radicate. […] Devono essere accolti con rispetto, compassione, delicatezza. A loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2358). È il punto di equilibrio che Giovanni Paolo II volle fissare e che Benedetto XVI difese: nessuna giustificazione di atti contrari all’antropologia cristiana, ma neppure esclusione delle persone.

Papa Francesco aveva sintetizzato questa prospettiva nel celebre «Chi sono io per giudicare?» (2013), che non era una rottura dottrinale ma l’applicazione pastorale del Catechismo. E nello stesso senso si può leggere il gesto di Leone XIV: riconoscere la dignità di chi cerca Dio, aprendo spazi di ascolto senza rinunciare alla verità del Vangelo.

Persona e ideologia

Ma un conto è la persona, altro sono le ideologie e i movimenti. Ed è qui che serve un chiarimento. Accogliere le persone non significa avallare le derive militanti: i pride ridotti a carnevale dell’ostentazione, le pressioni per ottenere privilegi legislativi che creino nuove disuguaglianze, l’uso politico della condizione omosessuale come bandiera. Da un punto di vista persino laico, non è sano che ogni minoranza organizzi rumorose rivendicazioni per ottenere riconoscimenti particolari. La dignità è universale, non si negozia a colpi di cortei.

Né giova trasformare l’orientamento sessuale in spettacolo pubblico. L’identità affettiva appartiene alla sfera intima, e l’ostentazione finisce per ferire proprio quella sacralità della persona che la Chiesa vuole custodire. Non dimentichiamo che tanti vivono la loro condizione con fatica e sofferenza, spesso in silenzio. Dietro ci sono storie personali, non slogan.

Va poi distinto con precisione: omosessualità, transessualità e disforia di genere sono realtà differenti. Se oggi la disforia non è più elencata come disturbo nel DSM V, resta tuttavia un fenomeno complesso, con radici psicologiche e sociali, che non può essere banalizzato come moda culturale. Confondere tutto sotto la sigla LGBTQ rischia di fare un torto proprio a chi cerca un cammino serio di integrazione e cura.

Un’eredità scomoda, una sfida attuale

Francesco aveva aperto cammini che non sempre furono accolti senza resistenze: basti pensare alla controversa Fiducia supplicans, che suscitò reazioni durissime in molte conferenze episcopali. Leone XIV si muove in quel solco, ma lo fa con un linguaggio meno improvvisato, più attento alla ricezione ecclesiale. Non si tratta di cambiare la dottrina – che resta chiara sull’unione matrimoniale tra uomo e donna – bensì di mostrare che la Chiesa non abbandona nessuno, che la misericordia non è un accessorio ma il cuore stesso del Vangelo.

Madre, non giudice e non complice

La sfida per la Chiesa è proprio questa: restare madre. Una madre non rinnega i suoi figli, ma neppure confonde l’amore con la complicità. Non chiude la porta in faccia, ma non smette di indicare la strada. Non riduce la persona a un’etichetta – “gay”, “trans”, “etero” – perché sa che il cuore umano vale infinitamente più delle sue definizioni.

Ecco allora la linea sottile ma necessaria: difendere la dignità senza trasformarla in ideologia, offrire misericordia senza scontare la verità, accogliere senza spettacolarizzare. Leone XIV, ricevendo James Martin nel cuore del Vaticano, ha voluto ribadire che nessuno è escluso dal Vangelo. Ma ha anche ricordato che il Vangelo non è un palcoscenico: è una parola che guarisce, converte e apre alla speranza.

Se Francesco aveva aperto la porta, Leone XIV sembra volerla tenere spalancata, con la calma di chi non teme il vento che entra.