Il concetto di “radici giudeo-cristiane dell’Europa” è da decenni oggetto di dibattito. Spesso brandito come slogan da parte di forze politiche identitarie, altre volte respinto come mitologia ideologica utile solo a escludere altre componenti fondamentali della civiltà europea, in primis l’islamica. Ma che fondamento storico e culturale ha questa espressione? È corretto, sul piano scientifico e teologico, parlare di una civiltà giudeo-cristiana europea?

Un’espressione moderna per una realtà antica

La locuzione “civiltà giudeo-cristiana” nasce in ambito statunitense nel XX secolo, per favorire una riappacificazione simbolica tra la cultura cristiana protestante dominante e la minoranza ebraica, in un contesto segnato dalla Shoah e dalla crescente influenza del pluralismo religioso. In Europa, questa espressione ha cominciato a circolare con più insistenza negli anni Ottanta, non di rado in chiave polemica verso la secolarizzazione o verso la crescente presenza dell’islam. Alcuni intellettuali, come Edward Saïd, hanno denunciato questo uso come operazione ideologica volta a costruire un’identità europea cristiano-ebraica fittizia e funzionale a escludere l’Islam come estraneo e pericoloso.

Eppure, se il termine è moderno, la realtà che vuole evocare non lo è. La storia europea è effettivamente intrisa di elementi giudaici e cristiani, benché in un rapporto storicamente lacerato da incomprensioni, persecuzioni e opposizioni teologiche.

Il cristianesimo, anima storica dell’Europa

È innegabile che l’Europa si sia costruita a partire da un’identità cristiana forte. Dall’editto di Milano (313) al battesimo di Clodoveo (496), dal Sacro Romano Impero alla cristianizzazione delle monarchie slave e scandinave, il cristianesimo ha dato forma a istituzioni, sistemi giuridici, categorie filosofiche, arte e cultura europea. Il termine “cristianità” ha designato per secoli l’intero orizzonte spirituale e politico dell’Occidente. Le croci che ancora oggi annunciano i villaggi europei, le chiese romaniche e gotiche, le università nate nei monasteri e nelle cattedrali, testimoniano una radice cristiana profonda e strutturante.

Il giudaismo, radice sotterranea ma fondativa

Diversa ma non meno significativa è la presenza del giudaismo. Il cristianesimo nasce dal giudaismo: Gesù è ebreo, come lo sono gli apostoli, e il Nuovo Testamento è impensabile senza la Scrittura ebraica. I Padri della Chiesa, pur nella dialettica “verus Israel” e nelle tensioni antigiudaiche, si confrontano costantemente con la tradizione ebraica, riprendendone categorie, simboli, figure.

Nel Medioevo, l’esegesi cristiana attinge abbondantemente dai commenti rabbinici: basti pensare alla fortuna delle etimologie rabbiniche dei nomi biblici (come quella di Isaac da risus) o all’influenza del Midrash nei racconti su Mosè. Il caso della Bible historiale di Guyart des Moulins, che integra materiale esegetico ebraico, mostra quanto la cultura cristiana abbia assorbito e trasformato elementi giudaici.

Tuttavia, questa realtà di scambio si accompagna a una lunga storia di emarginazione e persecuzione: il giudaismo fu spesso visto come l’alterità contro cui definire l’identità cristiana europea. Dalle espulsioni medievali ai pogrom moderni, fino alla Shoah, l’antisemitismo ha segnato l’Europa. È quindi vero che parlare oggi di “giudeo-cristianesimo” senza riconoscere questa storia di violenza è una forma di rimozione.

L’islam dimenticato

Una delle critiche più fondate al concetto di “radici giudeo-cristiane” è la sua tendenza a rimuovere l’apporto dell’islam. L’Europa mediterranea, e in particolare la Spagna e la Sicilia, furono per secoli crocevia di civiltà ebraica, cristiana e musulmana. L’Andalusia musulmana produsse filosofi come Averroè, ebrei come Maimonide, e fu un ponte decisivo nella trasmissione della scienza e della filosofia greca all’Occidente latino. La translatio studiorum medievale – da Bagdad a Toledo, da Cordoba a Parigi – è impensabile senza l’apporto arabo-islamico.

Il mondo medievale conosceva l’islam, lo temeva e lo rispettava. Figure come san Francesco d’Assisi che cercarono il dialogo con i musulmani, o san Tommaso che ne studiò i filosofi, testimoniano la complessità di questa relazione. Ridurre l’Europa alla sola asse giudeo-cristiana è dunque non solo inesatto, ma storicamente ingiusto.

Perché allora si continua a parlare di radici giudeo-cristiane?

Nonostante le criticità, l’espressione “radici giudeo-cristiane” conserva una sua legittimità se usata con prudenza. Essa può indicare, più che un’identità compatta, una genealogia culturale intrecciata. Non un’unità ideologica, ma una storia fatta di testi, di trasmissioni, di polemiche e di fecondazioni reciproche. Parlare di “giudeo-cristianesimo” può essere un modo per riconoscere la comune eredità biblica, la centralità del monoteismo, l’importanza della Legge, della Parola, dell’interpretazione come pratiche fondative.

Ma ciò richiede due condizioni: (1) non ignorare l’apporto delle altre componenti culturali dell’Europa (in particolare l’islam); (2) non usare il termine come strumento identitario per tracciare confini, ma come risorsa per leggere criticamente la complessità delle radici europee.

Una civiltà a tre voci

L’Europa non è solo greco-latina, non è solo cristiana, e non è solo giudeo-cristiana. È una civiltà a strati, a incroci, a conflitti. È il prodotto di un dialogo millenario – spesso drammatico – tra Atene, Gerusalemme e La Mecca. La sua identità non è un monolite, ma un intreccio vivo di eredità, di ferite e di speranze.

Parlare oggi di radici giudeo-cristiane ha senso se significa non dimenticare le connessioni profonde tra cristianesimo e giudaismo, e se invita a superare le contrapposizioni per riscoprire l’unità di una civiltà fondata sulla Parola, sull’alleanza e sul senso del limite. Ma non ha senso se diventa pretesto per negare l’altro, per difendere chiusure, o per affermare una superiorità esclusiva dell’Europa.

Solo una memoria riconciliata delle proprie radici – e delle proprie omissioni – può salvare l’Europa dal ripiegamento su se stessa. Un’Europa che dimentica la complessità della propria eredità non sarà mai davvero fedele a se stessa.


Nota finale: questo articolo è ispirato a fonti storiche, esegetiche e culturali, tra cui le riflessioni di Sophie Bessis, Edward Saïd, nonché la tradizione esegetica medievale ebraico-cristiana. Non si tratta di un’apologia né di una negazione, ma di un tentativo di chiarire una questione storicamente e teologicamente delicata.