Nel cuore polveroso del nord del Perù, nella diocesi di Chiclayo, c’è una pagina del Vangelo scritta con mani ferite e sguardi risorti. Una pagina che porta la firma di un pastore silenzioso, oggi salito al soglio di Pietro col nome di Leone XIV. Mentre il mondo discute su migranti e frontiere, c’è chi, come il Papa venuto da Chicago passando per Chiclayo, ha scelto di vivere le Beatitudini là dove gridano le ferite dell’umanità.
Pochi sanno – anche se qualche blog ha cominciato a riportarlo – che Robert Francis Prevost, allora vescovo della diocesi peruviana, ha dedicato una parte significativa del suo ministero all’impegno concreto per le donne vittime della tratta e della prostituzione forzata. Soprattutto migranti venezuelane, giunte in Perù con la speranza in tasca e finite invece intrappolate in bar e bordelli, spesso insieme ai figli piccoli.
Una Chiesa che accoglie, ascolta, riscatta
Non era un progetto calato dall’alto: era presenza, compagnia, dedizione. Prevost volle istituire nella diocesi una Comisión de Movilidad Humana y Trata de Personas, una rete operativa in collaborazione con la Caritas, la Famiglia Vincenziana e le Suore Adoratrici del Sangue di Cristo. Insieme aprirono un centro di accoglienza, San Vicente de Paul, dove più di 5.000 migranti trovarono assistenza, documenti, cure mediche, sostegno.
Ma non si trattava solo di rispondere a un’emergenza sociale. L’obiettivo era più alto: restituire dignità. Per questo il “padrecito Rober”, come lo chiamavano, celebrava messe e guidava ritiri spirituali per le donne, ascoltava le loro confessioni e le benediva. Le trattava da figlie.
Silvia Teodolinda Vázquez, 52 anni, lo racconta ancora con commozione: “Mi disse che capiva quanto fosse difficile per me aiutare quelle ragazze, perché sapeva del mio passato. Mi benedisse. Fu una carezza sull’anima”. Anche Silvia era stata vittima della tratta. Strappata da bambina alla sua famiglia, abusata, ricattata, resa invisibile. Conobbe le Suore Adoratrici in un bar dove lavorava come prostituta. Da loro trovò rifugio, formazione e dignità. E fu proprio nel 2017 che Prevost la coinvolse nella Commissione.
Una missione che continua, una speranza che resta
“Quando ho saputo che era diventato Papa ho pianto”, confessa Silvia. Il cammino avviato a Chiclayo non si è interrotto con la partenza di Prevost per Roma. Anzi, continua con nuovi laboratori, percorsi di libertà e reinserimento. Più di trenta donne sono riuscite a cambiare vita: alcune ora gestiscono saloni di bellezza, altre hanno ritrovato la famiglia. Non è utopia, è Vangelo vissuto.
In un tempo in cui la Chiesa è spesso accusata di essere lontana dai poveri e dalle periferie esistenziali, la storia di Leone XIV parla da sé. Nessuna retorica. Solo il silenzio della polvere calpestata, la voce spezzata di chi è stato ascoltato e il sorriso riconquistato di chi credeva che non fosse più possibile. È quella Chiesa in uscita di cui parlava il suo predecessore, Francesco. Ma qui è già realtà.
“Vi passano avanti nel Regno”
“Le prostitute vi passano avanti nel Regno di Dio”, dice Gesù (Mt 21,31). E papa Leone XIV sa che questo Vangelo non si interpreta solo, si abita. Si annuncia con la vicinanza, si scrive con l’incontro, si predica con le mani sporche di argilla e con le lacrime asciugate.
Mentre alcuni ambienti ecclesiali si dividono su dottrine astratte e le cancellerie discutono di migranti come fossero numeri, a Chiclayo resta incisa una testimonianza concreta di misericordia evangelica. È lì che Robert Prevost ha imparato – e insegnato – cosa significa davvero accompagnare gli ultimi.
E se oggi Leone XIV siede sulla Cattedra di Pietro, lo fa con la consapevolezza di chi ha già camminato accanto alle croci più dure. Forse non ha bisogno di leggere i reportages. Quelle storie le porta nel cuore.