Rivelazione, segni e obbedienza: perché la Chiesa oggi mette ordine senza spegnere la consolazione dei piccoli
Attraverso una lettera al vescovo di Bayeux-Lisieux il Dicastero per la Dottrina della Fede chiarisce le problematicità teologiche legate alle presunte apparizioni di Gesù a Dozulé in Normandia.
Ci sono storie spirituali che sembrano non finire mai. Una di queste è quella delle presunte apparizioni di Gesù a Dozulé, in Normandia, legate alla figura di Madeleine Aumont e alla richiesta di una gigantesca “Croce Gloriosa” alta 738 metri, visibile da lontano come “segno per il mondo”.
Per decenni questa vicenda ha affascinato alcuni, preoccupato altri, suscitato devozioni sincere ma anche tensioni, fratture, fanatismi. In mezzo, come spesso accade, tanti fedeli semplici che hanno trovato conforto nella Croce, nella preghiera, in un pellegrinaggio.
Ora, con una Lettera ufficiale al vescovo di Bayeux-Lisieux, firmata dal prefetto del Dicastero per la Dottrina della Fede, cardinale Víctor Manuel Fernández, e approvata da papa Leone XIV, la Chiesa mette un punto fermo: Dozulé non è un fenomeno soprannaturale. Non viene da Dio come rivelazione autentica.
Sono tante le “croci gloriose” diffuse in ogni continente. Ma questo “no” non è il colpo di spugna su chi ha pregato, né un giudizio sprezzante sui veggenti o su chi, in buona fede, si è sentito aiutato. È piuttosto un servizio: riportare tutto sui binari giusti della rivelazione, della Tradizione, dei Padri, del Magistero. Ricordare che la Croce che salva è una sola, ed è già stata innalzata una volta per sempre.
Sete di segni, bisogno di garanzie
Il punto di partenza della Lettera è quasi sorprendente: non un freddo parere dottrinale, ma un inno alla Croce, tratto da Paolino di Nola. La Croce come “grande misericordia di Dio”, “scala per salire al cielo”, “vincolo della pace umana”. È come se il Dicastero dicesse: prima di parlare di Dozulé, ricordiamoci Chi è davvero al centro: Cristo crocifisso e risorto.
È qui che la vicenda si fa attuale. Il nostro tempo è assetato di segni forti, di garanzie visibili, di “messaggi” che promettono sicurezza in tempi confusi. Una croce gigantesca che assicura salvezza a chi la guarda, un luogo dove “saranno rimessi tutti i peccati”, una scadenza escatologica precisa: capiamo bene perché questo possa sedurre.
Ma proprio per questo la Chiesa deve chiedere: di cosa abbiamo veramente bisogno? Di un’ennesima croce monumentale o di tornare alla Croce del Golgota, già presente nei sacramenti, nella liturgia, nella vita dei santi?
Dozulé ha mescolato elementi buoni – inviti alla penitenza, alla contemplazione della Croce – con affermazioni teologicamente problematiche:
- il parallelo tra la “Croce Gloriosa” e il Golgota,
- l’idea che recarsi là garantirebbe automaticamente il perdono e la salvezza,
- l’annuncio di un ritorno imminente di Cristo legato alla costruzione di quella croce.
Sono proprio questi punti che il Dicastero corregge: non per punire, ma per proteggere.
Rivelazione pubblica e rivelazioni private: cosa è obbligatorio credere?
Qui è decisivo fare chiarezza. Nel cattolicesimo esistono due livelli:
- La Rivelazione pubblica: è quella contenuta nella Scrittura e nella Tradizione, giunta a noi nel Magistero vivente della Chiesa. Si è compiuta definitivamente in Cristo. Non sarà mai “integrata” da nuovi messaggi vincolanti. Qui sta il depositum fidei, ciò che ogni cristiano è chiamato a credere.
- Le rivelazioni private: anche quando sono riconosciute come autentiche (Lourdes, Fatima…), non aggiungono nulla di essenziale alla fede, ma aiutano a viverla in un certo tempo storico. Nessuno è obbligato a credervi; nessuna può mettersi allo stesso livello del Vangelo o dei sacramenti.
Il problema di Dozulé non è che lì si sia pregato o convertito qualcuno – questo accade in tanti luoghi. Il problema è quando un messaggio privato pretende di introdurre condizioni nuove per la salvezza, canali “privilegiati” di perdono, segni necessari per il mondo intero: una croce precisa, un posto preciso, entro una data precisa.
Qui si oltrepassa la soglia. Non siamo più nella devozione che aiuta a vivere il Vangelo, ma in un Vangelo “parallelo” che rischia di scavalcare i sacramenti, la Chiesa, la Croce stessa di Cristo.
La Croce non ha bisogno di essere duplicata
Uno dei chiarimenti più forti della Lettera riguarda la pretesa teologica legata alla Croce di Dozulé:
- “La Croce Gloriosa rimetterà ogni peccato”
- “Tutti quelli che verranno ai suoi piedi saranno salvi per l’eternità”
Qui passa una linea rossa. La fede cattolica insegna che la remissione dei peccati viene unicamente dal sacrificio di Cristo, reso presente nei sacramenti, in particolare nel Battesimo e nella Penitenza. Nessun luogo, nessun oggetto, nessun gesto esteriore “automatico” può sostituire la grazia sacramentale.
La Croce costruita dagli uomini può essere segno, richiamo, sacramentale: può invitare al pentimento, sostenere la speranza, attirare alla confessione. Ma non rimettere i peccati, come se bastasse il pellegrinaggio per essere salvi.
La Chiesa, ricordando il Concilio di Trento, difende qui qualcosa di essenziale: la salvezza è grazia gratuita, non si compra con atti esteriori, non si garantisce con coordinate geografiche, non si lega a un monumento.
Il rischio – dice in sostanza il Dicastero – è di passare da una fede che guarda al Crocifisso, a una specie di “sacralizzazione del segno”, dove il messaggio di Dozulé e la sua croce diventano il centro, quasi più della Pasqua di Cristo.
Escatologia e nervi scoperti del nostro tempo
Altro punto delicato: l’annuncio di una fine imminente, di un “ultimo Anno Santo”, di un ritorno prossimo del Signore legato alla costruzione della Croce Gloriosa.
La Chiesa crede e confessa ogni giorno il ritorno di Cristo nella gloria. Ma, con la stessa decisione, ripete da duemila anni le parole degli Atti: «Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato al suo potere». Ogni tentativo di fissare date, luoghi, segni “necessari” entra nel territorio scivoloso del millenarismo, delle paure apocalittiche, delle derive settarie.
Non è difficile capire perché questo attiri: in un mondo insicuro, l’idea di “sapere” quando e come finirà tutto dà l’illusione di controllo. Ma la speranza cristiana non è contabilità del futuro: è fiducia nel Signore che viene sempre, nella storia e alla fine della storia.
Il vero “vegliare”, ci ricorda il Vangelo, non è inseguire messaggi spettacolari, ma vivere ogni giorno nella carità, nella conversione, nell’Eucaristia.
Non contro i devoti, ma a favore di una fede adulta
Un punto decisivo è che questa Lettera non va letta come un “processo ai devoti”.
La Chiesa sa bene che molti, a Dozulé come in tanti altri luoghi, hanno pregato con sincerità, hanno riscoperto la confessione, si sono accostati alla Croce con fiducia. Nessuno di questi gesti va disprezzato; Dio scrive diritto anche sulle nostre righe storte.
Il “no” alla soprannaturalità non è un “no” alla consolazione ricevuta, ma alla pretesa che quel fenomeno debba vincolare le coscienze, guidare la pastorale, ridisegnare la teologia della Croce.
In altre parole: Dio può aver toccato cuori anche attraverso percorsi confusi; ma questo non significa che tutto ciò che è stato detto o preteso in nome suo venga da Lui. Qui entra in gioco il discernimento ecclesiale, che non è mancanza di fede, ma fedeltà alla Rivelazione.
Mistica vera: meno effetti speciali, più comunione
Sul fondo c’è una grande lezione per la mistica di oggi. La vera mistica non è collezione di fenomeni straordinari, ma conformità alla volontà di Dio, come insegnavano Teresa d’Avila e Giovanni della Croce.
Un’anima può non avere mai una visione in tutta la vita e essere profondamente mistica; un’altra può moltiplicare esperienze “forti” e restare spiritualmente immatura. Il criterio non è ciò che si vede, ma ciò che si vive: umiltà, carità, obbedienza alla Chiesa, pace interiore, capacità di portare la croce di ogni giorno.
In tempi in cui la religiosità rischia di diventare “spettacolo spirituale” o prodotto di consumo, la decisione su Dozulé è anche un atto pedagogico: ci ricorda che il cristiano non ha bisogno di mappe segrete, codici speciali, luoghi magici. Ha bisogno di tornare al centro:
- la Parola di Dio,
- i sacramenti,
- la Croce e il Risorto,
- la comunione ecclesiale,
- i poveri in cui Cristo continua a farsi incontrare.
Un’occasione per crescere
Per molti, questa Lettera sarà forse una delusione. Per altri, una liberazione. Per tutti, può essere una occasione di maturità.
La fede adulta non si misura dalla quantità di rivelazioni private seguite, ma dalla capacità di stare, con fiducia, sulla terra ferma del Vangelo e del depositum fidei. Non è una fede meno “mistica”; anzi, è la mistica più vera: quella che lascia a Cristo, e non ai nostri segni, l’ultima parola.
Alla fine, la Croce che salva non sarà mai alta 738 metri. Sarà quella che ciascuno sceglie di portare dietro a Lui, nella storia concreta, nell’obbedienza concreta, nell’amore concreto.
È lì che l’unica Croce della salvezza continua a innalzarsi, silenziosamente, nel cuore del mondo.
