La giustizia internazionale ha bussato alla porta dell’Italia. Ma Roma ha fatto finta di non sentire. È questo il segnale drammatico che arriva dal caso Ossama al-Masri, il comandante libico accusato dalla Corte Penale Internazionale di crimini contro l’umanità per le atrocità compiute nella famigerata prigione di Mitiga. Arrestato a Torino il 19 gennaio 2025, è stato espulso nel giro di poche ore, senza che il mandato di arresto della CPI venisse eseguito. Un “rientro volontario”, secondo la versione ufficiale. Una fuga pilotata, secondo molti. Ora è l’Italia a finire sul banco degli imputati.

La Corte dell’Aja ha aperto un procedimento contro lo Stato italiano per “inottemperanza agli obblighi di cooperazione”. Una definizione tecnica che in realtà chiama in causa il cuore del diritto internazionale: la dignità delle vittime, il principio di legalità, la responsabilità degli Stati firmatari dello Statuto di Roma. Se uno Stato firmatario non esegue un mandato internazionale, che ne è dell’universalità della giustizia?

Il caso al-Masri, infatti, non è solo un incidente diplomatico. È un segnale di crepe profonde in una visione del diritto che dovrebbe superare i confini. L’Italia – che storicamente ha sostenuto la nascita della Corte Penale Internazionale – ha oggi l’immagine di un Paese che volta le spalle proprio a quell’istituzione. Per calcolo politico? Per interessi geopolitici legati alla gestione dei flussi migratori in Libia? Per negligenza istituzionale?

Il rischio è di aver perso, in un solo colpo, il profilo di garante del diritto internazionale e la credibilità morale su cui si basano le relazioni con l’Europa e con i popoli del Mediterraneo. E non basta evocare la sovranità nazionale o la “sicurezza” per giustificare ciò che somiglia a una resa di fronte all’illegalità. La sicurezza vera nasce dal diritto, non dall’elusione del diritto.

In gioco non c’è solo l’onore dell’Italia. C’è il futuro della giustizia globale. Se i mandati della CPI diventano facoltativi, se gli Stati membri possono ignorarli impunemente, allora la giustizia internazionale si svuota. E a rimetterci saranno i più deboli: i torturati di Mitiga, le famiglie dei migranti scomparsi, i bambini detenuti illegalmente, le donne violentate sotto la minaccia delle armi.

Papa Francesco ha più volte richiamato l’Europa a “non perdere l’anima”. E l’anima dell’Europa è anche in queste scelte: stare dalla parte delle vittime, cooperare alla verità, non scendere a patti con la logica del silenzio. Un’Italia che coopera con l’Aja è un’Italia che si fida della giustizia, che onora la propria storia e che rifiuta di barattare i diritti umani con interessi a breve termine.

Se c’è stata una svista, si chieda scusa. Se c’è stata una responsabilità politica, si faccia chiarezza. Ma non si resti in silenzio. Perché il silenzio, in casi come questi, sa troppo di complicità.