Nel cuore della Mezzaluna fertile, tra gli echi di un Impero che fu e le ferite ancora aperte della democrazia moderna, la figura di Recep Tayyip Erdoğan si staglia oggi come quella di un uomo che ha plasmato il proprio Paese a immagine e somiglianza del proprio potere. Eppure, paradossalmente, è nel carcere che potrebbe nascere una nuova speranza per la Turchia: quella che ha il volto e la voce, ora silenziata, di Ekrem Imamoglu.

Sindaco di Istanbul, carismatico, moderato, democratico, Imamoglu è stato arrestato con accuse costruite, poco credibili persino per la macchina giudiziaria turca. L’operazione è parsa più uno scatto d’ira che una strategia politica: Erdoğan ha usato la forza di 200 agenti per chiudere in cella l’unico avversario capace di batterlo alle urne, l’unico che – come lui agli inizi – ha saputo parlare alla Turchia urbana, giovane e disillusa. Ma nel tentativo di spegnere quella voce, Erdoğan ha involontariamente acceso un fuoco: manifestazioni di massa, mobilitazioni spontanee, code ai seggi per una primaria simbolica che ha portato alle urne oltre 15 milioni di persone.

Non è solo una questione di rivalità politica: la detenzione di Imamoglu ha scoperchiato un vaso di Pandora fatto di repressione, paura e frustrazione. E non è la prima volta. Già in passato Erdoğan aveva incarcerato il leader curdo Selahattin Demirtaş, condannato a 45 anni per aver “minato l’unità dello Stato”. Il suo vero crimine? Essere popolare tra i curdi e parlare una lingua di pace, non di armi. Eppure, proprio dai curdi è venuta recentemente una nuova occasione di dialogo: la fine dell’insurrezione armata del PKK, l’avvio di un percorso di riconciliazione parlamentare, la richiesta limpida di democrazia. Erdoğan però ha accolto questa svolta storica con freddezza, come se la pace potesse diventare una minaccia.

Sul piano istituzionale, il presidente turco ha eroso nel tempo i contrappesi democratici, trasformando l’esercito – un tempo arbitro severo della vita politica turca – in un corpo addomesticato. Dopo il tentato golpe del 2016, centinaia di ufficiali sono stati epurati, e l’esercito, ridimensionato, è divenuto più uno strumento di ordine che di indirizzo nazionale. Ma proprio qui sta il paradosso: un tempo Erdoğan combatteva per sottrarre la democrazia al controllo militare; oggi, è lui che la tiene sotto chiave.

E così, la Turchia si trova oggi davanti a un bivio storico. La vecchia narrazione del “leader forte” non basta più. La crisi economica, il malcontento giovanile, la stretta repressiva e le divisioni etniche implodono sotto il peso di un potere divenuto autoreferenziale. Ma mentre Erdoğan cerca di guadagnare tempo e blindare la propria leadership, è nel volto sereno e fermo di un uomo detenuto che molti turchi vedono l’alternativa: Imamoglu, come un moderno Havel o Mandela, parla dal carcere con più forza di quanto molti politici facciano dalle tribune.

Il tempo dell’autocrazia potrebbe volgere al termine. Ma la vera domanda è: la Turchia saprà cogliere questa occasione di rinascita? O dovrà ancora passare per la notte prima di rivedere l’alba della libertà?