Dopo gli alawiti e i drusi, anche i curdi sono nel mirino del regime di Ahmad Sharaa. Il nuovo governo siriano, sostenuto da influenti attori internazionali, usa forza e divisione per consolidarsi, mentre Israele gioca un ruolo ambiguo, tra interventi militari e strategie divisive.

Otto mesi fa Ahmad Sharaa saliva al potere in Siria con l’appoggio di Turchia, Stati Uniti e monarchie del Golfo, promettendo un futuro inclusivo per ogni comunità siriana. Oggi, però, la realtà è ben diversa: anziché una nuova Siria per tutti, il Paese vive un’acuta stagione di tensioni interconfessionali e repressioni sanguinose.

Dopo la violenta repressione contro gli alawiti avvenuta lo scorso marzo, tra maggio e luglio è stata la volta della comunità drusa, coinvolta in violenti scontri che hanno lasciato sul terreno centinaia di morti, tra combattenti, civili e gruppi paramilitari. Solo dopo una dura battaglia e raid aerei israeliani nelle regioni di Suwayda e Daraa, è stato raggiunto un precario accordo tra il regime centrale e le élite locali. I drusi, che per anni avevano goduto di un’autonomia significativa, vedono oggi ridimensionato il loro potere, pur mantenendo il controllo locale sulla sicurezza.

Israele ha svolto un ruolo determinante e ambiguo. Da un lato, il suo intervento militare ha contribuito indirettamente a frenare le violenze confessionali, dall’altro non ha realmente protetto i drusi siriani. Il vero obiettivo israeliano, infatti, sembra essere quello di consolidare il suo controllo strategico sul sud della Siria, area cruciale per mantenere il cosiddetto “corridoio iraniano” sotto osservazione e neutralizzarne eventuali minacce.

Nel frattempo, Tel Aviv alterna azioni militari a iniziative di “soft power”, offrendo aiuti umanitari selettivi alla comunità drusa di Hader sul Golan occupato, salvo poi respingere proprio questi stessi drusi quando cercano rifugio oltre confine. Una strategia che appare volta soprattutto a consolidare divisioni interne alla Siria, rafforzando confini e divisioni comunitarie.

La protezione offerta ai drusi serve dunque a Israele come strumento retorico per giustificare i propri interventi militari davanti all’opinione pubblica internazionale, specialmente in rapporto all’influente minoranza drusa interna allo Stato ebraico. Al contempo, Israele punta a mantenere la Siria frammentata, in linea con la dottrina politica che da decenni guida le sue strategie regionali: evitare la nascita di Stati multietnici e multiconfessionali stabili ai suoi confini.

Questa strategia è particolarmente evidente nell’ultimo attacco spettacolare condotto dall’aviazione israeliana su Damasco, il cui vero intento è stato quello di acuire le divisioni tra drusi e sunniti siriani. Un intervento che ha contribuito a dipingere i drusi come complici del nemico, acuendo tensioni che affondano le radici in rivalità storiche, alimentate nel tempo da potenze coloniali e regimi autoritari locali.

In questo clima di sospetto reciproco, centinaia di famiglie beduine sunnite sono ora costrette a lasciare Suwayda, temendo ritorsioni. Il regime di Sharaa, sfruttando antiche rivalità, prosegue dunque una politica di divide et impera già sperimentata nel tempo da chi lo ha preceduto.

I curdi, attenti osservatori delle dinamiche interne siriane, vedono con inquietudine questa evoluzione. Consapevoli che potrebbero essere il prossimo obiettivo delle politiche del nuovo regime, mantengono alta la guardia. In attesa di capire come verrà spartita la Siria tra Israele, Turchia e Stati Uniti, si preparano ad affrontare un futuro incerto in un Paese sempre più frammentato e instabile.