La Corte Suprema USA autorizza Trump a tagliare i buoni alimentari

Da Washington è arrivata una notizia che inquieta: la Corte Suprema degli Stati Uniti ha temporaneamente autorizzato l’amministrazione Trump a trattenere parte dei fondi destinati ai buoni alimentari SNAP, il programma che garantisce cibo a più di 40 milioni di americani. È l’ennesimo colpo di scena in una disputa che dura da settimane e che, nel mezzo di una paralisi federale, sta lasciando milioni di famiglie nel limbo, tra carte prepagate scariche e mense sovraffollate.

Solo poche ore prima, diversi Stati — tra cui Massachusetts, New York, Pennsylvania e Oregon — avevano cominciato a distribuire gli aiuti completi, dopo un lungo ritardo che aveva già messo in ginocchio i più fragili. Poi, nella notte, il contrordine: tutto sospeso. La giudice Ketanji Brown Jackson ha accolto la richiesta urgente del governo federale, congelando l’ordine del tribunale del Rhode Island che imponeva il pagamento integrale dei benefici.

Tecnicamente è una sospensione amministrativa, in attesa che la Corte d’Appello decida sul merito. Ma, in pratica, significa giorni di incertezza per chi non può aspettare: le madri sole che fanno la spesa con il conto a zero, gli anziani che condividono la pensione con i nipoti, i lavoratori poveri che si affidano a quei buoni per arrivare alla fine del mese. In diversi Stati — Ohio, Texas, Louisiana — gli uffici hanno già comunicato che i sussidi arriveranno “in ritardo”, senza poter dire quando.

Al di là della complessità legale, resta un dato umano che non può essere ignorato. Si può discutere su tutto — sulla spesa pubblica, sul debito, sulle priorità del bilancio — ma non sul pane. È moralmente inaccettabile che il cibo diventi ostaggio della contesa politica, una leva tattica nella guerra dei poteri tra amministrazione e magistratura. La fame non è un capitolo contabile: è un grido.

La dottrina sociale della Chiesa parla chiaro: il diritto al nutrimento non è un “beneficio”, ma una condizione di dignità. «Il bisogno dei poveri — scrive Fratelli tutti — ha priorità rispetto al lusso dei ricchi». La politica, quando dimentica questa gerarchia dei beni, smarrisce la propria anima. Il rischio, oggi, è che gli Stati Uniti — il Paese più ricco del mondo — si abituino all’idea che la fame possa essere temporaneamente sospesa per decreto.

Intanto, le comunità religiose e le organizzazioni di volontariato continuano a reggere l’urto. Nelle chiese di quartiere, nei centri Caritas e nelle mense parrocchiali, la solidarietà si moltiplica. È il volto buono dell’America, quella che non si rassegna al cinismo dei numeri. Ma la carità non può sostituire la giustizia. I volontari possono colmare i vuoti di un giorno, non i buchi di un sistema che gioca con la sopravvivenza dei più deboli.

In fondo, questa vicenda è un test morale più che politico. Misura la distanza tra le parole della Costituzione e la realtà quotidiana, tra le grandi cifre del deficit e il vuoto di un piatto. È anche un avvertimento per noi europei: ogni volta che l’economia diventa più importante della persona, ogni volta che si taglia nel nome dell’efficienza ciò che tocca la vita reale dei poveri, la società intera si impoverisce.

Gesù, davanti alle folle affamate, non chiese bilanci né fondi straordinari. Disse soltanto: “Date loro voi stessi da mangiare”. È una lezione che resta intatta dopo duemila anni: la fame non si rimanda, si ascolta. E il pane — qualunque pane, anche quello dei buoni pasto — non è mai una questione di bilancio, ma di umanità.