Gli USA sequestrano una petroliera venezuelana
C’è una scena che sembra uscita da un romanzo di Graham Greene, ma che appartiene ormai alla cronaca geopolitica del nostro tempo: un elicottero militare, uomini armati che calano sul ponte di una petroliera in acque internazionali, una nave che cambia rotta non per una tempesta ma per ordine di una superpotenza. La Skipper, sequestrata dagli Stati Uniti mentre navigava tra Grenada e Trinidad, non è solo una nave carica di greggio venezuelano. È una metafora galleggiante del mondo che stiamo attraversando.
Formalmente, la vicenda è chiara. Il petrolio partito dal Venezuela era destinato, almeno sulla carta, a Cuba, nell’ambito di quel patto energetico che da decenni lega Caracas e L’Avana: petrolio sovvenzionato in cambio di medici, tecnici, istruttori e – sempre più – apparati di sicurezza. In realtà, come mostrano i tracciati e i documenti della PDVSA, solo una piccola quota arriva davvero sull’isola. Il resto prende la via dell’Asia, soprattutto della Cina, trasformandosi in valuta forte indispensabile per la sopravvivenza di economie strangolate dalle sanzioni.
Ma il punto non è solo economico. Il sequestro della Skipper segna un salto di qualità. Non siamo più davanti a sanzioni finanziarie o a divieti commerciali: siamo di fronte a un’azione coercitiva diretta, spettacolare, pensata per lanciare un messaggio. Non solo a Maduro, ma a tutta quella “internazionale delle sanzioni” – Venezuela, Cuba, Iran, Russia – che negli ultimi anni ha imparato a muoversi nelle pieghe del diritto marittimo e del commercio globale.
La risposta dei protagonisti segue un copione ormai noto. Washington parla di applicazione della legge e di contrasto ai traffici illegali; Caracas e L’Avana gridano alla pirateria e al terrorismo marittimo; Teheran denuncia la “pirateria sponsorizzata dallo Stato”; Mosca osserva con apparente distacco, consapevole però che quella flotta ombra, oggi nel mirino americano, è stata anche una scuola per aggirare i divieti occidentali.
Dietro la retorica, resta una domanda più profonda: chi governa davvero i mari nel XXI secolo? Le acque internazionali, teoricamente spazio neutro, diventano sempre più spesso il teatro di una sovranità selettiva, esercitata da chi ha i mezzi militari e giuridici per farlo. La legalità, in questo contesto, appare elastica: si estende o si ritrae a seconda degli interessi strategici.
La Skipper racconta anche un’altra verità scomoda: le alleanze che sfidano l’Occidente non sono unite da ideologie granitiche, ma da necessità. Venezuela, Iran e Russia competono tra loro sul mercato cinese, si osservano con diffidenza, ma cooperano quando serve. Non è un fronte politico, è un ecosistema di sopravvivenza. Come ha osservato un analista, assomiglia a una sorta di “OPEC delle sanzioni”: interessi comuni, rivalità latenti, pragmatismo assoluto.
Alla fine, il sequestro di una petroliera non risolve né la crisi venezuelana né il collasso energetico cubano. Serve piuttosto a ribadire i rapporti di forza in un mondo sempre più multipolare e sempre meno regolato. Un mondo in cui le regole esistono, sì, ma valgono soprattutto per chi non ha la forza di infrangerle.
La Skipper forse approderà in un porto texano. Ma ciò che resta in mare è una domanda inquietante: se questa è la nuova normalità, quante altre navi, quante altre crisi, navigheranno domani tra legalità proclamata e potere esercitato?
