La grande mobilitazione per la pace ha mostrato un’Italia viva, desiderosa di giustizia e umanità per il popolo palestinese. Ma gli episodi di vandalismo, come l’imbrattamento della statua di San Giovanni Paolo II, rischiano di oscurare il valore civile di una protesta che resta un segnale forte contro la politica attendista e filo-israeliana del governo. La pace non si costruisce con la rabbia, ma con la verità e la responsabilità.
C’è da riconoscere un dato positivo e incoraggiante: l’Italia, dopo mesi di silenzi e indifferenze, è tornata in piazza per la pace. Migliaia di persone, da Nord a Sud, hanno manifestato il desiderio di un cessate il fuoco duraturo, la richiesta di una via diplomatica che ponga fine al massacro nella Striscia di Gaza e restituisca dignità tanto ai palestinesi quanto agli israeliani.
Una mobilitazione vasta e composita, dove credenti, laici, giovani e famiglie hanno espresso un’unica, nobile preoccupazione: che il diritto internazionale non venga calpestato nel nome della “sicurezza” di qualcuno e della “ragione di Stato” di altri.
Tuttavia, proprio in un momento in cui la società civile dimostra di saper parlare con la voce della coscienza, alcuni gesti hanno rischiato di oscurare il significato profondo di questa mobilitazione. L’imbrattamento della statua di San Giovanni Paolo II alla stazione Termini, con la scritta “fascista di m…”, non è soltanto un atto vandalico: è un’offesa alla memoria di un uomo di pace, di un pontefice che seppe parlare con verità e coraggio a tutte le ideologie, unendo i popoli invece di dividerli.
Gesti del genere — come pure il danneggiamento di negozi, cassonetti, automobili o, peggio ancora, l’aggressione alle forze dell’ordine — non solo sono da condannare senza esitazione, ma finiscono per depotenziare la forza morale delle piazze. La violenza, anche quella simbolica, tradisce sempre la causa che pretende di difendere.
Resta però evidente che il governo italiano, finora, ha fatto troppo poco per meritare di dirsi “impegnato per la pace”. La posizione assunta sulla crisi israelo-palestinese è apparsa fin dall’inizio schiacciata su interessi bilaterali: cooperazioni militari, accordi sulla cybersicurezza, forniture di armamenti. Tutto questo ha reso l’Italia più simile a un partner strategico di Israele che a un interlocutore credibile nel difficile cammino della mediazione internazionale.
Ma la piazza — quella vera, pacifica e popolare — ha ricordato che la coscienza morale di un Paese non si misura sui contratti di difesa, bensì sulla capacità di guardare il dolore di un bambino sotto le macerie e dire, semplicemente: basta.
La speranza è che questa mobilitazione non venga strumentalizzata né dalla politica né dai facinorosi, ma resti un segno profetico, un risveglio civile. Perché la pace non si conquista con i muri o con le scritte, ma con la fatica paziente del dialogo, il rispetto delle persone e la lucidità della verità.
E allora sì, torniamo in piazza, ma senza odio. Torniamo a gridare la pace, ma con la fermezza di chi crede ancora che ogni gesto, ogni parola, ogni bandiera debba servire a costruire, non a distruggere.
Solo così — da cittadini, non da tifosi — potremo onorare il nome di chi la pace, davvero, l’ha testimoniata con la vita.