Incontro a Washington tra Trump e Zelensky con i “volenterosi” dell’Europa

Gli incontri incrociati di questi giorni – Washington, Mosca, Kiev – hanno riportato al centro la questione ucraina. Donald Trump appare come un mediatore sospeso tra due poli opposti: da una parte la tentazione isolazionista, dall’altra la pressione interventista. Ma la vera domanda non è quale Trump vedranno i leader europei o Volodymyr Zelensky. È piuttosto quale pace sarà restituita ai popoli, dopo anni di sangue e macerie.

Le radici delle diffidenze

Per comprendere la durezza della guerra attuale, occorre guardare a un passato segnato da promesse mancate e accordi violati. Già nel 1990, alla vigilia della riunificazione tedesca, alcuni leader occidentali avevano rassicurato Mosca che la NATO non si sarebbe allargata “neanche di un pollice a est”: promessa che non fu formalizzata nei trattati ma che rimase nella memoria russa come un impegno tradito. Negli anni successivi, l’Alleanza Atlantica si è progressivamente estesa ai Paesi dell’ex Patto di Varsavia e poi ad alcune repubbliche ex sovietiche, alimentando in Russia un senso di accerchiamento.

Dall’altra parte, Mosca ha violato ripetutamente gli impegni assunti. Già prima degli accordi di Minsk (2014-2015), le garanzie fornite con il Memorandum di Budapest del 1994 – che riconoscevano la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina in cambio della rinuncia alle armi nucleari – sono state calpestate con l’annessione della Crimea e il sostegno diretto ai separatisti del Donbass. Anche Minsk, più volte rilanciato, non è mai stato pienamente applicato: le armi non hanno taciuto e la fiducia reciproca è evaporata.

La lezione di Orsini e la dottrina sociale

Come sottolinea il professor Alessandro Orsini, nessun negoziato potrà avere esito duraturo se non si tiene conto del timore esistenziale della Russia verso l’espansione della NATO. Allo stesso tempo, ignorare i diritti sovrani di Kiev e le sofferenze del popolo ucraino significherebbe costruire una pace ingiusta. La Santa Sede lo sa bene: il vero negoziato nasce quando entrambe le parti riconoscono almeno una parte di verità nell’altro, senza pretendere di annientarlo.

Papa Francesco in Fratelli tutti ammonisce: «la guerra è un fallimento della politica e dell’umanità» (n. 261). Un fallimento che si è ripetuto per decenni, tra promesse non mantenute e aggressioni reciproche. Giovanni XXIII, nella Pacem in terris, ricordava i pilastri della pace: verità, giustizia, amore e libertà. Ognuno di questi è stato violato lungo la strada: verità piegate alla propaganda, giustizia negata alle vittime, libertà soffocata dalla paura, amore sostituito dall’odio.

La via profetica della pace

Trump sembra desideroso di presentarsi come l’uomo del Nobel. Ma la pace non è un trofeo da esibire: è un’opera di giustizia che si misura nel ritorno dei profughi, nelle famiglie riunite, nei bambini che ricominciano a frequentare la scuola senza sirene antiaeree.

La diplomazia internazionale dovrà essere “minuziosa”, come afferma il ministro russo Lavrov. Ma la minuzia necessaria non è solo quella dei protocolli. È la pazienza del dialogo, la capacità di riconoscere le ferite reciproche e di costruire garanzie reali, non promesse destinate a essere infrante.

Il mondo attende non un compromesso qualsiasi, ma un gesto che vada oltre l’interesse dei singoli Paesi: il riconoscimento che la sicurezza non si costruisce contro qualcuno, ma insieme a qualcuno. E che il valore di una nazione non si misura nella potenza delle armi, ma nella capacità di salvaguardare la vita dei propri figli.

La Santa Sede continuerà, con la forza mite del Vangelo, a ricordarlo: la pace nasce quando si disarmano i cuori, non quando si moltiplicano i calcoli strategici.