Dal libro di Matthieu Poupart alle ferite della nostra epoca: la Chiesa e il mondo di fronte al dramma della violenza sessuale
Nel suo saggio Le Silence de l’agneau (Seuil, 2024), Matthieu Poupart lancia una domanda bruciante: la pastorale morale sessuale cattolica, così come è stata insegnata nel XX secolo, ha forse impedito alla Chiesa di riconoscere e combattere le violenze sessuali al suo interno? È una tesi scomoda, ma necessaria. E diventa ancora più urgente se guardiamo al nostro mondo, attraversato da una stessa, dolorosa trama: la violenza sul corpo innocente, nelle guerre e nelle nostre città.
Poupart, teologo e già collaboratore della Conferenza episcopale francese, non parla da polemista, ma da credente ferito e lucido. Egli mostra come per decenni la pastorale cattolica abbia concentrato la propria attenzione sulla sessualità “illegittima” — quella fuori dal matrimonio, “impura”, “disordinata” — dimenticando di nominare il male più grande: la violenza.
Nel suo racconto autobiografico, Poupart confessa di essere cresciuto in una Chiesa che parlava di castità, ma mai di consenso; che ammoniva sul peccato, ma taceva sulla sofferenza. Un’omissione che ha avuto conseguenze tragiche: la difficoltà a riconoscere gli abusi non solo dentro la Chiesa, ma anche nella società, là dove il linguaggio religioso continua a formare coscienze e culture.
La teologia dimenticata delle vittime
L’autore recupera una tradizione antica: sant’Agostino, nella Città di Dio, dedica quattro capitoli alla consolazione delle donne vittime di violenza. Segno che il cristianesimo delle origini non ignorava le ferite del corpo violato. Ma la modernità ecclesiale, secondo Poupart, avrebbe dimenticato questa compassione originaria, sostituendo la “teologia della vittima” con una “teologia della colpa”.
La sua critica alla Teologia del corpo di Giovanni Paolo II è durissima: “In 129 catechesi — osserva — non si nomina mai la violenza”. Un vuoto teologico che ha reso la Chiesa muta davanti a chi gridava aiuto. Il rischio è di ridurre la sessualità a una questione di purezza o di peccato, dimenticando che al centro del Vangelo c’è la storia di un corpo violato e consegnato, quella di Cristo stesso.
Dalle guerre ai nostri quartieri: lo stesso grido
Il libro di Poupart non parla solo alla Chiesa, ma a un mondo intero che sembra ripetere lo stesso dramma.
Basta guardare i fatti di cronaca: in Sudan, dove da oltre un anno la guerra civile ha trasformato lo stupro in arma sistematica; in Ucraina, dove le denunce di violenze sessuali su donne e bambine da parte dei soldati russi sono in aumento, documentate da ONU e ONG; in Palestina e in Israele, dove anche la brutalità della guerra ha colpito corpi di donne, rese simbolo e bottino.
E poi c’è l’Italia, dove gli stupri di gruppo di Palermo e Caivano, o il caso del figlio di Beppe Grillo, hanno mostrato quanto la cultura del consenso resti fragile, spesso piegata da una mentalità che trasforma la violenza in bravata, la sopraffazione in libertinaggio. Esattamente ciò che Poupart denuncia: una società e una Chiesa che hanno “truccato il volto del male”, chiamando peccato quello che in realtà è crimine, e “disordine morale” ciò che è distruzione della dignità.
La comunità come luogo di responsabilità
Nel cuore del saggio emerge una tesi potente: “Ogni violenza sessuale è un dramma che si gioca a tre: la vittima, l’aggressore e la comunità”. Nessuno stupro avviene nel deserto, scrive Poupart, ma in un contesto di relazioni che consente, copre, normalizza. È un’accusa che tocca tanto la Chiesa quanto la società: perché ogni silenzio, ogni complicità, ogni battuta minimizzante è una forma di violenza aggiunta.
Le cronache dei processi per violenza di gruppo in Italia rivelano lo stesso meccanismo: l’omertà del gruppo, la colpevolizzazione della vittima, la comunità che chiude gli occhi. Proprio come accadde per decenni nella Chiesa, dove la logica della protezione dell’istituzione ha prevalso sulla giustizia verso i piccoli.
Un libro che riapre la parola
Le Silence de l’agneau non è un pamphlet, ma un atto di fede. Poupart non chiede di abbandonare la morale cattolica, ma di purificarla, di farle ritrovare il cuore evangelico: la compassione verso chi è stato ferito. È una teologia che non nasce dai libri, ma dai corpi; una pastorale che non si accontenta di predicare la purezza, ma impara a guarire le ferite.
Alla fine, il messaggio del libro si intreccia con quello del Vangelo: la storia della salvezza è la storia di un innocente torturato. Non c’è cristianesimo che non passi per il riconoscimento della violenza e per la cura delle sue vittime.
Solo ripartendo da questo “silenzio dell’agnello” — il Cristo che tace ma non acconsente al male — la Chiesa e l’umanità potranno imparare di nuovo a parlare di amore, libertà e rispetto.
La cronaca ci mostra ogni giorno che la violenza sessuale non è un’eccezione, ma una malattia collettiva. Il libro di Poupart ci ricorda che non basta condannare: bisogna cambiare linguaggio, mentalità, teologia.
Perché finché continueremo a parlare di peccato e non di ferita, di moralità e non di consenso, la voce delle vittime resterà soffocata. E con essa, forse, anche la voce di Dio.
La morale cristiana di fronte alla violenza sessuale
