C’è chi dice che nella Chiesa oggi ci siano “due messe”: quella di Paolo VI e quella tridentina. Qualcuno arriva perfino ad affermare che sarebbero “due religioni diverse”. Sono slogan che confondono i fedeli, soprattutto i giovani, e tradiscono la realtà: l’Eucaristia è una sola, ed è valida e salvifica indipendentemente dalla veste rituale con cui viene celebrata.

Non due riti, ma un’unica lex orandi

La formula “forma straordinaria del rito romano” fu introdotta nel 2007, con Summorum Pontificum. Non esisteva prima e non ha precedenti teologici. Non c’è quindi nessuna tradizione immutabile da difendere: c’è stata piuttosto un’invenzione pastorale, poi corretta da Papa Francesco con Traditionis custodes. Parlare oggi di due forme paritarie significa alimentare un equivoco che divide.

A chi accusa la riforma di Paolo VI di “aver violato il Concilio Vaticano II” va ricordato che fu proprio il Concilio, con la Sacrosanctum Concilium, a chiedere una revisione profonda della liturgia per favorire la partecipazione attiva, la proclamazione della Parola, l’uso delle lingue vive. Il Messale del 1969 è figlio diretto di quel testo, non la sua negazione.

Una riforma nella continuità

C’è chi sostiene che “nulla di ciò che accade nelle nostre chiese” sarebbe contenuto nella Costituzione conciliare. È falso: il Concilio volle espressamente l’ampliamento delle letture bibliche, la preghiera dei fedeli, la rinnovata preghiera eucaristica, la possibilità di concelebrare. Tutto questo oggi è normale nella Messa. Non si tratta di “creazioni arbitrarie”, ma di applicazioni fedeli del dettato conciliare.

Le nostalgie e i veri rischi

Un altro commento dice che “sono due religioni diverse”. Qui il rischio è di scivolare verso lo scisma: l’Eucaristia celebrata col Messale di Paolo VI è la stessa di quella celebrata col Messale del 1570. Chi afferma il contrario non difende la fede, la mette in pericolo.

C’è poi chi dipinge il rito antico come “irrinunciabile” perché solo lì si conserverebbe la dottrina del sacrificio. Ma la riforma non ha tolto nulla: ha reso più evidente ciò che è sempre stato vero. Negare la sacramentalità e la sacralità del rito riformato significa cadere in un’eresia liturgica, come ha chiarito anche Benedetto XVI.

Una liturgia viva, non un museo

È vero che la liturgia non è mai neutra: porta in sé la fede di chi la celebra. Ma proprio per questo non può essere congelata. La storia della Chiesa mostra che i riti sono sempre stati riformati, aggiornati, adattati. Dire che la “messa di sempre” sia quella tridentina significa ignorare che la liturgia dei primi secoli era molto diversa, più semplice, più legata alla Parola. Ogni epoca ha avuto il suo linguaggio rituale; il nostro è quello scaturito dal Vaticano II.

Una Chiesa madre, non matrigna

Qualcuno ha apprezzato l’idea della “forma straordinaria” come segno di accoglienza. È vero: fu un tentativo di carità pastorale. Ma se da concessione diventa bandiera ideologica, allora tradisce il suo senso. La Chiesa è madre: accompagna con pazienza, ma non può permettere che la liturgia diventi un campo di battaglia.

Dietro le polemiche sui riti spesso si nascondono nostalgie, clericalismi e paure del presente. La sfida non è scegliere tra una “messa più sacra” e una “meno sacra”: la sfida è celebrare bene, con fede e bellezza, l’unica Eucaristia che salva.