I danni alla Chiesa e alle anime
Nella vita consacrata la nostalgia del passato può trasformarsi in trappola. Zygmunt Bauman l’ha chiamata “retrotopia”: il rifugio in un’epoca idealizzata che finisce per bloccare il presente e chiudere al futuro. Il caso dei Francescani dell’Immacolata è stato segnato anche da questo: la vicenda dell’iniziatore storico, padre Stefano Maria Manelli, e le ombre generate attorno al suo nome, hanno mostrato come la logica del clan possa contaminare il carisma. Lo ha affermato anche la Santa Sede in più occasioni: la fedeltà a un fondatore non può mai trasformarsi in fedeltà a un gruppo ristretto che si auto-perpetua.
Dal mito alla caricatura
Quando la retrotopia incontra il familismo, il mito delle origini si irrigidisce. L’autorità diventa gestione interna del “noi” e il passato si fa scudo per respingere ogni indicazione esterna.
È in questo cortocircuito che la vita consacrata smette di essere segno profetico e diventa autorappresentazione, come una compagnia teatrale che recita sempre lo stesso copione per un pubblico già convinto.
Zygmunt Bauman, nel suo libro Retrotopia, descrive la tentazione di rifugiarsi in un passato idealizzato, considerato perfetto, mentre il presente viene visto come un tempo di decadenza e il futuro come una minaccia. È un meccanismo che affascina perché promette sicurezza, ma che, nella vita consacrata, può diventare veleno: al posto della fedeltà creativa al carisma, subentra la replica ostinata di forme e usi che appartenevano a un’altra epoca.
«La retrotopia è l’inversione dell’utopia: non il sogno di un futuro migliore, ma il desiderio di restaurare un passato percepito come sicuro. È una nostalgia organizzata, spesso costruita su ricordi selettivi» (Z. Bauman, Retrotopia, Laterza, 2017).
L’illusione del “ritorno puro”
Questo tipo di nostalgia selettiva non è un vero ritorno alle fonti, ma un’operazione di restauro estetico. Ci si concentra sul recupero di abiti, cerimonie, linguaggi e simboli, come se bastasse riproporli per ritrovare automaticamente la freschezza evangelica delle origini.
Si finisce così per vivere un “come se”: come se le condizioni storiche non fossero cambiate, come se l’autorità ecclesiale potesse essere sostituita da un’autolegittimazione interna, come se bastasse il costume per essere religiosi.
«Il ritorno alle fonti… non è un semplice guardare indietro, ma un’operazione spirituale che, rimanendo fedele alla sorgente, trova nuove vie di espressione». (Vita Consecrata, n. 37)
Questa prospettiva contrasta con la retrotopia, che invece congela le fonti in un’immagine idealizzata.
La vera retromarcia
C’è una frase rimasta famosa, pronunciata dall’iniziatore storico dei Francescani dell’Immacolata, Stefano Maria Manelli: «Dopo il Concilio Vaticano II la Chiesa ha innestato la retromarcia».
In realtà, la vera retromarcia l’ha innestata lui, quando ha scelto la disobbedienza e la ribellione, chiudendosi in un mondo autoreferenziale. Così facendo, ha finito per rovinare se stesso, la compagine femminile legata alla sua opera e molti figli spirituali, trascinati nella sua visione nostalgica e conflittuale.
E allora si vedono scene surreali: persone che, pur non essendo più religiose di diritto, vengono rivestite di un abito come simbolo identitario; cerimonie di professione organizzate in spazi privati, lontano dalla comunione ecclesiale; voti pronunciati in assenza dell’autorità competente, in un circuito chiuso dove chi presiede e chi promette appartengono allo stesso cerchio ristretto.
Non è vita consacrata. È una rappresentazione in costume.
Quando la nostalgia incontra il clan
In alcune esperienze di vita consacrata, la retrotopia ha trovato un alleato nella logica del familismo.
Si tratta di quella tendenza, molto umana e per nulla evangelica, a concentrare incarichi di responsabilità o ruoli decisionali in persone vicine per legami di sangue, di parentela acquisita o di appartenenza ristretta. Non è un’accusa personale, ma la constatazione di un fenomeno che, quando si innesta nella vita religiosa, crea un effetto di chiusura: le decisioni circolano in un gruppo ristretto, la leadership si autoriproduce, il ricambio è ostacolato.
In questo contesto, la retrotopia si rafforza: il passato idealizzato diventa patrimonio esclusivo del “noi” interno, e ogni apertura all’esterno è percepita come minaccia.
«Talvolta si riscontrano modalità di governo che non rispettano i diritti della persona e il bene comune dell’istituto. È necessario vigilare perché il servizio dell’autorità non degeneri in forme di autoreferenzialità». (Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata, Il dono della fedeltà, la gioia della perseveranza, n. 28)
Il familismo nepotista, nella vita religiosa, rientra tra queste forme di autoreferenzialità che minano la comunione.
Quando la retrotopia incontra il familismo, il mito delle origini si irrigidisce. L’autorità diventa gestione interna del “noi” e il passato si fa scudo per respingere ogni indicazione esterna.
È in questo cortocircuito che la vita consacrata smette di essere segno profetico e diventa autorappresentazione, come una compagnia teatrale che recita sempre lo stesso copione per un pubblico già convinto.
Quando la Chiesa riforma
Il caso dei Francescani dell’Immacolata, oggi in cammino di rinnovamento, mostra cosa significa un autentico “ritorno alle fonti” secondo il Magistero: non un’operazione di imbalsamazione del passato, ma una purificazione che distingue ciò che appartiene all’essenza del carisma da ciò che è frutto di scelte contingenti o di interpretazioni personali.
La riforma chiesta dalla Santa Sede non ha avuto lo scopo di cancellare la memoria, ma di salvare ciò che è autentico, liberandolo dalle incrostazioni di autoreferenzialità, rigidità e legami chiusi.
La lezione da imparare
L’episodio di chi ha accusato la Chiesa di “retromarcia” ma ha poi, di fatto, invertito il cammino evangelico, resta un monito: la nostalgia può diventare una prigione, e l’orgoglio di conservare “intatto” il passato può condurre alla sua deformazione.
La vera fedeltà al fondatore non è ripetere le sue scelte personali, ma incarnare la sua ispirazione nella comunione con la Chiesa. Solo così la vita consacrata rimane segno di speranza, e non monumento al proprio passato.
Il documento Il dono della fedeltà, la gioia della perseveranza indica chiaramente tre assi su cui si gioca la fedeltà al carisma: la memoria, che deve essere viva e non mitizzata; il discernimento, che separa ciò che è Vangelo da ciò che è interesse personale; la comunione, che impedisce all’identità di un istituto di ridursi a un cerchio chiuso. Quando questi tre elementi si intrecciano, anche un istituto passato attraverso crisi profonde può rinascere.