C’è un equivoco che l’Italia farebbe bene a dissipare: l’ascesa geopolitica di Recep Tayyip Erdoğan non è un fenomeno “lontano”, confinato al Levante o alle sabbie della Siria. È una dinamica che tocca direttamente il Mediterraneo centrale, le rotte energetiche, i flussi migratori, gli equilibri di sicurezza che da Tripoli arrivano fino a Lampedusa.

Quando Erdoğan si presenta come l’artefice di una nuova centralità turca in Medio Oriente, non sta parlando solo ai suoi elettori. Sta parlando anche a Roma, ad Atene, a Nicosia, alle capitali europee che sul Mediterraneo hanno interessi vitali ma spesso una visione corta. La Turchia non cerca semplicemente influenza: cerca struttura, cerca di proporsi come perno ordinatore di un’area che va dal Caucaso alla Libia, passando per Siria, Iraq e Mar Rosso. Una Pax Turkica che, se mai vedesse la luce, ridisegnerebbe gli spazi in cui l’Italia storicamente ha esercitato un ruolo.

Dal punto di vista italiano, il punto non è se Erdoğan stia vincendo o perdendo la sua scommessa imperiale. Il punto è che la Turchia è ormai un attore sistemico, mentre l’Italia rischia di restare un attore reattivo. Ankara ha basi, accordi militari, leve energetiche, un’industria della difesa aggressiva e una diplomazia che non si vergogna di essere muscolare. Roma, invece, oscilla tra prudenza, moralismo intermittente e l’illusione che la stabilità possa essere delegata ad altri.

Il dossier libico è emblematico. La presenza turca a Tripoli non è un incidente, ma una scelta strategica di lungo periodo: sicurezza in cambio di influenza, accordi marittimi in cambio di protezione. Per l’Italia, che in Libia ha interessi energetici, migratori e di sicurezza diretta, il protagonismo turco è insieme un rischio e un dato di fatto con cui fare i conti. Ignorarlo significa accettare una marginalizzazione silenziosa.

Lo stesso vale per la Siria. Una Siria post-Assad sotto forte tutela turca cambierebbe gli equilibri del Levante e rafforzerebbe Ankara come interlocutore obbligato su dossier che toccano anche l’Europa: rifugiati, jihadismo residuale, corridoi energetici. Per l’Italia, che ha sempre sostenuto la necessità di una stabilizzazione inclusiva e multilaterale, il rischio è che la partita venga giocata altrove, con Washington, Ankara e Tel Aviv come veri tavoli decisionali.

C’è poi il nodo israelo-turco. La crescente rivalità tra Ankara e Tel Aviv introduce un fattore di instabilità che per l’Italia è tutt’altro che astratto. L’Italia ha rapporti solidi con Israele, relazioni economiche con la Turchia e una vocazione mediterranea che la espone agli effetti collaterali di ogni escalation. In questo scenario, limitarsi a “schierarsi” è miope: ciò che serve è capacità di mediazione credibile, fondata su una presenza reale e non solo dichiarata.

Infine, il dato strutturale: la Turchia di Erdoğan è forte militarmente ma fragile economicamente; ambiziosa strategicamente ma vulnerabile internamente. È proprio questa combinazione a renderla imprevedibile. Per l’Italia, questo significa una cosa sola: non si può costruire una politica mediterranea basata sull’attesa o sulla simpatia personale tra leader. Servono visione, continuità istituzionale, investimenti diplomatici e una chiara definizione dell’interesse nazionale.

Erdoğan sogna un ritorno dell’ordine ottomano. L’Italia non deve sognare il passato, ma ricordarsi di avere un futuro nel Mediterraneo. Se rinuncia a pensarsi come potenza regionale, qualcun altro riempirà lo spazio. E la Turchia, con o senza Erdoğan, ha già dimostrato di saperlo fare.