Missili sui tetti, bambini sotto le macerie, l’acqua che smette di scorrere, i microfoni che tacciono. In Iran, la guerra si è fatta visibile e totale: ospedali, abitazioni civili, infrastrutture energetiche e persino la televisione pubblica IRIB sono ora tra i bersagli colpiti dai raid israeliani. Il prezzo? Centinaia di vite innocenti spezzate, mentre il mondo continua a voltarsi dall’altra parte.

Oggi in Iran non si parla solo di missili, ma di ospedali colpiti, bambini morti, famiglie spezzate. L’ultima ondata di raid israeliani ha lasciato dietro di sé un Paese ferito nel cuore, ma non piegato nello spirito. L’attacco al Children’s Hospital Hakim, che ha provocato un’ondata di indignazione internazionale, è solo l’episodio più recente in una serie di operazioni militari che stanno devastando infrastrutture civili in città come Teheran, Mashhad e Kermanshah. La lista delle vittime, pubblicata dai media locali, racconta nomi e volti di un’umanità colpita mentre dormiva, pregava o lavorava. Non sono numeri: sono padri, madri, figli. Sono medici, studenti, operai. Sono vite.

Israele giustifica tutto come “legittima difesa preventiva”, ma la realtà sul terreno smentisce ogni logica militare proporzionata. Attaccare un ospedale pediatrico, una stalla, una conduttura idrica, una rete televisiva nazionale è crimine, non strategia. E lo è anche nel diritto internazionale: le Convenzioni di Ginevra parlano chiaro. Ma l’impunità sembra garantita, grazie al silenzio complice di troppi attori internazionali. La frase correttiva del ministro israeliano Katz, che su X ha assicurato che “non c’è intenzione di colpire i civili”, suona oggi vuota e offensiva. Perché i civili sono già morti. E la loro memoria chiede verità, non comunicati diplomatici.

In Iran, la risposta a questa aggressione non è solo militare: è spirituale e culturale. Il popolo non si piega. Dai palazzi bombardati di Teheran alla provincia martoriata, emerge un unico coro: “Noi resistiamo, non ci spezziamo.” Come ha dichiarato un sopravvissuto: “Ogni missile che ci colpisce ci ricorda chi siamo. Non chiediamo pietà. Difendiamo la nostra dignità.” È la voce di chi, nella sofferenza, trova la forza di restare umano.

Nel silenzio assordante di molte cancellerie occidentali, questa guerra ci interroga: quanto vale la vita di un bambino iraniano? E fino a che punto la comunità internazionale può restare cieca davanti alla distruzione di ospedali, case, acquedotti e reti di comunicazione?

Per la pace, non basta condannare l’uso della forza sproporzionata. Bisogna ristabilire il primato del diritto umanitario, senza eccezioni. O continueremo a contare morti e a scrivere necrologi, dove dovrebbero esserci parole di giustizia e dialogo.

civili iranaini uccisi da idf