Ci sono guerre che non vengono annunciate. Non hanno dichiarazioni solenni, né risoluzioni parlamentari, né mappe ufficiali con frecce colorate. Cominciano così: con un’esplosione senza coordinate, una frase detta quasi distrattamente in radio, un silenzio imbarazzato delle cancellerie. È in questo spazio grigio che si colloca la nuova offensiva americana contro il Venezuela, dove la lotta al narcotraffico e il cambio di regime finiscono per coincidere, senza più nemmeno lo sforzo di fingere il contrario.
L’elemento nuovo non è l’ostilità di Washington verso Nicolás Maduro, né l’uso di sanzioni, pressioni diplomatiche o operazioni coperte. La novità è il passaggio simbolico e operativo alla terra, anche se mediato dai droni. Colpire un’infrastruttura portuale sul territorio venezuelano — per quanto in modo rapido, notturno e senza vittime — significa attraversare una soglia politica. È il segnale che la guerra non è più solo “intorno” al Venezuela, ma dentro il Venezuela.
Eppure, tutto avviene come se nessuno volesse davvero prendersene la responsabilità.
L’ambiguità come strategia
Trump conferma l’attacco, ma non dice chi lo ha eseguito. La CIA non commenta. Il Pentagono prende le distanze. Caracas tace. È un concerto di mezze frasi e omissioni che non nasce dal caos, ma da una precisa architettura politica: mantenere l’operazione plausibilmente negabile, pur rendendola abbastanza visibile da lanciare un messaggio.
Quel messaggio è duplice. All’interno, parla all’elettorato americano stanco di overdose, insicurezza e narrazioni di uno Stato “inermi davanti ai cartelli”. All’esterno, soprattutto in America Latina, afferma che Washington è tornata a usare la forza diretta, senza chiedere permessi, senza aspettare consenso multilaterale, senza più nemmeno mascherare l’obiettivo finale: forzare Maduro all’angolo.
La retorica è quella già vista nella “guerra al terrore”: i narcotrafficanti equiparati ad Al Qaeda, le strutture logistiche trattate come obiettivi militari, l’intelligence che guida i droni. Cambia il teatro, non la grammatica del potere.
Tre fasi, un solo disegno
Letta in sequenza, la strategia americana appare coerente. Prima il mare: l’attacco sistematico alle presunte narco-barche, con un bilancio umano che solleva interrogativi giuridici sempre più seri. Poi l’energia: il sequestro delle petroliere, il blocco navale di fatto, il ritorno esplicito dell’interesse per il greggio venezuelano, enorme e inutilizzato. Infine la terra: il molo distrutto, il porto “che non esiste più”, come ha detto Trump con disarmante semplicità.
Non è solo una campagna antidroga. È una pressione multidimensionale, che mira a strangolare il Venezuela economicamente, delegittimarlo politicamente e abituare l’opinione pubblica internazionale all’idea che un’azione più ampia sarebbe non solo possibile, ma persino necessaria.
Che Caracas non abbia denunciato formalmente l’attacco è forse l’aspetto più inquietante: segno di debolezza, di prudenza estrema o di consapevolezza di non avere leve reali per reagire?
Il ritorno dell’America imperiale (senza dirlo)
In controluce, questa vicenda racconta qualcosa di più grande del Venezuela. Racconta il ritorno di un’America che non vuole più essere vincolata né dal Congresso né dal diritto internazionale, e che riscopre la guerra a bassa visibilità come strumento politico ideale: efficace, rapida, poco costosa in termini di consenso interno.
Trump non parla di invasione. Non ne ha bisogno. Gli basta dire: “Sappiamo dove sono. Sappiamo come colpirli”. È un linguaggio che non cerca legittimazione morale, ma deterrenza psicologica. Un linguaggio che segnala a Maduro — e a chiunque lo osservi — che il margine di manovra si sta riducendo.
Una domanda che resta sospesa
La vera domanda, però, non riguarda il molo colpito o i droni utilizzati. Riguarda il precedente che si sta creando. Se un Paese può essere colpito militarmente, senza dichiarazione di guerra, senza mandato internazionale, senza prove pubbliche condivise, sulla base di una definizione unilaterale di “narco-Stato”, allora il confine tra sicurezza e arbitrio diventa sottilissimo.
Il Venezuela oggi. Domani qualcun altro.
E mentre la Casa Bianca parla di lotta alla droga, il sospetto resta: che questa guerra silenziosa non sia solo contro i cartelli, ma contro l’idea stessa che esistano Stati sovrani fuori dall’orbita americana. Una guerra che non si dichiara, ma che — proprio per questo — è già cominciata.
