Non servono grandi teologi per capire che esiste un limite, anche nel dibattito politico più acceso. È quel limite che si chiama dignità umana. A Roma, i manifesti della Lega celebrativi del cosiddetto “decreto Sicurezza”, rimossi per decisione degli uffici comunali competenti, non sono soltanto il segno di un cattivo gusto pubblicitario. Sono lo specchio di una certa deriva della comunicazione politica, che dimentica le persone e trasforma tutto – dolore, povertà, paura, persino protesta sociale – in merce da affissione.

Le immagini generate dall’intelligenza artificiale per rappresentare il presunto “nemico sociale” – la persona nera, la donna rom, l’uomo con i rasta – parlano più di mille discorsi: una visione caricaturale e stigmatizzante dell’altro, che è il contrario esatto di ciò che la Dottrina sociale della Chiesa insegna fin da Rerum novarum. Ogni persona, anche chi sbaglia, anche chi occupa una casa o blocca una strada, conserva intatta la sua dignità. Non può essere trasformata in un mostro su un cartellone o in uno slogan da maglietta.

Già in passato Matteo Salvini ha fatto ricorso a simboli religiosi e politici per alimentare il consenso attraverso contrapposizioni ideologiche e provocazioni visive: dalla maglietta “Benedetto è il mio Papa” durante il pontificato di Francesco, alla maglia con il volto di Vladimir Putin contestatagli in una visita in Ucraina, in un contesto già tragico e complesso. Sono atti studiati, pensati da spin doctor e consulenti della comunicazione, che giocano con le emozioni collettive ma senza curarsi delle ferite che lasciano nei corpi sociali più fragili.

Chi fa comunicazione pubblica – e ancor più chi ha responsabilità di governo – non può ridurre il reale a una narrazione polarizzante, in cui ogni dissenso diventa un crimine e ogni persona vulnerabile una minaccia. È un modello che nega il principio di solidarietà e bene comune, fondamenti della convivenza secondo l’insegnamento sociale della Chiesa.

C’è un paradosso che non può passare inosservato: la prima categoria ad essere colpita dal decreto celebrato nei manifesti è stata quella dei lavoratori, metalmeccanici in sciopero, non certo bande di delinquenti. È la realtà che bussa alla porta e smentisce la narrazione. Non è un problema di “bavaglio comunista”, come qualcuno ha dichiarato, ma di limiti giuridici e morali: la pubblicità che fa leva su stereotipi etnici o sessuali, o che criminalizza in blocco intere fasce di popolazione, non è libertà di espressione, è istigazione al pregiudizio. E questo, in una città come Roma, capitale di una nazione democratica e culla del cristianesimo, non può essere tollerato.

La rimozione dei manifesti è stata motivata da una norma chiara: l’articolo 12-bis del Regolamento comunale sulla pubblicità, che vieta contenuti offensivi, discriminatori o fondati su stereotipi. Non è censura, è difesa della civiltà. E se qualcuno vuole reagire con una nuova campagna, magari accompagnata da magliette di propaganda, sappia almeno che la posta in gioco è più alta di qualche punto nei sondaggi: è il volto umano della politica. E questo non si imprime su una t-shirt, si riconosce nei volti reali di chi ogni giorno cerca casa, lavora duro, o manifesta pacificamente per un mondo più giusto.

Anche nei tempi duri, anche nel conflitto politico più acceso, la fraternità resta una via obbligata. Non ci sono scorciatoie comunicative che tengano. Se davvero vogliamo costruire sicurezza, iniziamo a disinnescare le bombe semantiche che gettiamo addosso agli altri. Lo dice anche il Vangelo: non serve guadagnare il mondo intero se si perde l’anima. Anche quella collettiva. Anche quella di una democrazia.

blocchi stradali