Ciò che noi oggi chiamiamo “persona” costituisce uno dei nuclei semantici più densi, affascinanti e, al tempo stesso, più controversi del pensiero occidentale. Dietro questa parola si cela un cammino che ha attraversato la filosofia greca, il diritto romano, la riflessione patristica, la scolastica medievale e l’antropologia moderna, fino a lambire i confini più delicati della bioetica e della filosofia politica contemporanea. Non si tratta di un concetto neutrale: la definizione di persona non è mai stata mera descrizione, bensì ha sempre implicato una visione del mondo, una concezione della dignità umana, un modello di società. Per questo, ogni epoca che abbia provato a circoscriverne il significato ha in realtà formulato un progetto culturale ed etico.

Nel cuore del VI secolo, Severino Boezio, uno degli ultimi grandi testimoni della classicità e, al tempo stesso, precursore del medioevo, consegnò al pensiero una definizione destinata a segnare secoli di riflessione: persona est naturae rationalis individua substantia. Con queste parole, egli riuscì a racchiudere in una formula sobria ed essenziale una visione capace di resistere alle più sofisticate obiezioni teoriche e alle più insidiose derive ideologiche. La persona, per Boezio, è anzitutto “sostanza”, ossia realtà che sussiste in sé e non in altro, ciò che permane al di là degli accidenti e delle mutazioni. È inoltre “individua”, cioè concreta e irripetibile, distinta dagli universali e non confondibile con un mero concetto astratto. Infine, è “di natura razionale”: ciò che distingue l’uomo dagli altri esseri viventi non è la mera sensibilità o l’istinto, ma la capacità di trascendere il contingente, di orientarsi al vero e al bene, di costruire legami fondati sulla libertà. Tale definizione, nata nel contesto delle dispute cristologiche volte a comprendere l’unione tra natura divina e natura umana in Cristo, trascende l’ambito teologico e si impone come criterio universale: ogni uomo, in quanto individuo appartenente a una natura razionale, è persona, e in quanto tale portatore di una dignità intrinseca che non dipende da ciò che possiede o da ciò che fa, ma da ciò che è. In questa prospettiva, il valore dell’essere umano non risiede nell’attualità della sua coscienza o nell’efficienza delle sue capacità, ma nella sua stessa essenza, che permane anche nei momenti di debolezza, di malattia, di incapacità.

È questa la forza inclusiva del paradigma boeziano: un neonato che non ha ancora sviluppato la coscienza, un anziano segnato dalla demenza, un malato in stato vegetativo restano persone nella pienezza della dignità, perché partecipano della medesima natura razionale. La modernità, invece, con John Locke, avrebbe proposto un’altra via, fondata non sull’essere ma sulla coscienza. Ma prima di giungere a questa svolta, è importante sottolineare che la definizione boeziana, lungi dall’essere un artificio scolastico, custodisce un dinamismo relazionale che la rende ancora attualissima. La sostanza individuale non è un monolite chiuso in se stesso: è apertura all’altro, capacità di relazione, vocazione alla comunità. La razionalità non è calcolo freddo, ma principio di comunicazione, di linguaggio, di amore gratuito. È la facoltà che rende possibile il dono e che fonda la dignità di ciascuno come essere-in-relazione.

Relazionalità, corporeità e dignità: l’armonia del paradigma classico

La grandezza del paradigma boeziano non si esaurisce nella sua forza definitoria. Esso racchiude una comprensione integrale dell’uomo, che sfugge a riduzioni unilaterali e restituisce armonia alle dimensioni della sua esistenza. Molti interpreti moderni hanno sospettato che la definizione boeziana potesse oscurare la relazionalità, accentuando un’immagine solitaria e sostanzialistica della persona. Altri hanno ravvisato una possibile svalutazione della corporeità, quasi che la razionalità indicasse un primato esclusivamente spirituale. Ma tali obiezioni nascono da un fraintendimento, perché in realtà il concetto di natura rationalis comprende tanto la dimensione spirituale quanto quella corporea, tanto la capacità di trascendere quanto la concretezza sensibile. L’uomo è corpo animato da ragione, è unità inscindibile di spirito e materia: e proprio per questo la sua dignità abbraccia ogni fase della vita e ogni condizione dell’esistenza.

La razionalità, lungi dall’essere principio di isolamento, è ciò che fonda la relazionalità. È grazie ad essa che possiamo comprendere l’altro come altro, stabilire rapporti non solo istintivi ma consapevoli, generare linguaggio e cultura. È essa che rende possibile la gratuità dell’amore, l’apertura alla verità, la costruzione di comunità autentiche. Per questo la persona, nella prospettiva classica, non è individuo chiuso, ma essere-in-relazione che trova nel dono la sua più alta realizzazione. L’altro non è minaccia, ma condizione del compimento di sé. L’amore, lungi dal dissolvere l’identità, ne rappresenta la massima espressione: nell’atto di donarsi, la persona si ritrova più pienamente se stessa. Un altro elemento decisivo riguarda la corporeità. Per il pensiero classico, il corpo umano non è una semplice appendice della ragione, ma parte integrante della natura razionale. È attraverso il corpo che la ragione si esprime, conosce, ama, soffre, spera.

È nel corpo che l’uomo vive la propria apertura al mondo e agli altri. La dignità della persona, pertanto, non può essere ridotta alla sola dimensione spirituale, ma comprende la totalità dell’essere umano. Questo significa che nessuna condizione di fragilità corporea può intaccare la dignità personale: il corpo ferito, limitato, segnato dal dolore resta corpo di natura razionale, e come tale custode di dignità. In questa prospettiva, il paradigma boeziano si presenta come straordinariamente inclusivo. Non stabilisce criteri selettivi, non condiziona la dignità all’attualità della coscienza, non esclude i più deboli. Al contrario, afferma con forza che tutti, senza eccezione, sono persone.

È qui la radice di un’etica della custodia e della giustizia: riconoscere l’altro non per ciò che produce o per ciò che appare, ma per ciò che è. Una società fondata su questo principio è una società che accoglie, che custodisce, che si costruisce non sull’efficienza ma sulla dignità universale.

La crisi della modernità: dal paradigma lockeano alla dittatura della prestazione

La modernità, con John Locke, inaugura una svolta profonda e, in larga misura, destabilizzante. Nel Saggio sull’intelletto umano, egli propone una definizione di persona radicalmente diversa: persona è colui che possiede coscienza di sé, che è capace di dire “io”, di ricondurre le proprie azioni al proprio sé, di assumere responsabilità morale. L’identità personale non è fondata sull’essere, ma sulla memoria e sulla coscienza.

Da qui deriva un mutamento radicale: la persona non è ciò che si è, ma ciò che si possiede e ciò che si fa. Questa impostazione, apparentemente empirica e concreta, dissolve in realtà il fondamento ontologico della dignità. Se la persona è coscienza, allora colui che non esercita coscienza non è persona. Se la dignità dipende dalla memoria e dalla responsabilità, allora essa può venir meno. È in questa prospettiva che si aprono le derive più pericolose: i feti, i malati in coma, i disabili gravi rischiano di essere esclusi dalla categoria di persone, e dunque privati del riconoscimento sociale e giuridico della loro dignità. La conseguenza è l’instaurarsi di una cultura che misura la vita non sulla sacralità, ma sulla qualità; non sull’essere, ma sull’avere; non sulla dignità, ma sulla prestazione. È ciò che possiamo chiamare la “dittatura della prestazione”: una logica che pervade non solo i grandi dibattiti bioetici, ma la vita quotidiana.

Ognuno si sente chiamato a dimostrare costantemente il proprio valore, a giustificare la propria esistenza con il rendimento, a temere l’esclusione se non è in grado di mantenere il livello richiesto. La dignità si trasforma in funzione, e la persona rischia di essere ridotta a merce valutabile e manipolabile. In questo scenario, il paradigma boeziano si rivela quanto mai attuale e necessario. Esso ci ricorda che la dignità non è un attributo che si acquisisce o si perde, ma una qualità intrinseca dell’essere umano.

Ogni uomo, indipendentemente dalle sue condizioni, è persona, ed è chiamato a essere accolto, custodito, amato. Recuperare questa verità significa resistere alla riduzione tecnocratica e utilitaristica, significa restituire alla società un fondamento etico saldo, significa costruire relazioni fondate non sull’utile ma sulla gratuità. La scelta che abbiamo davanti non è marginale, ma decisiva per il futuro della civiltà. Vogliamo vivere in un mondo che riconosce valore a ogni uomo per ciò che è, oppure accettare una società che seleziona gli individui in base a ciò che fanno? La risposta a questa domanda segna il destino della nostra convivenza.