Sta emergendo dopo trent’anni l’atrocità del “safari umano” organizzato da insospettabili professionisti italiani nella Guerra dei Balcani

C’è un abisso morale che oggi si riapre sotto i nostri piedi.

La notizia che la Procura di Milano indaghi su un gruppo di cittadini italiani che, durante l’assedio di Sarajevo, avrebbero pagato fino a centomila euro per “sparare ai civili come in un safari umano”, non è soltanto un caso giudiziario. È un pugno nello stomaco della coscienza collettiva europea.

Secondo quanto emerso dall’esposto del giornalista Ezio Gavazzeni, assistito dall’ex magistrato Guido Salvini, e dalle testimonianze raccolte nel documentario Sarajevo Safari del regista sloveno Miran Zupanič, questi “turisti della guerra” provenivano dal Nord Italia: Trieste, Friuli, Veneto, Lombardia, Piemonte.

Uomini di mezza età, professionisti, commercianti, imprenditori — in alcuni casi noti ambienti di estrema destra — che negli anni Novanta avrebbero attraversato i Balcani per raggiungere le colline attorno alla capitale bosniaca, dove i miliziani serbo-bosniaci li avrebbero accolti con armi vere e bersagli umani. Donne, anziani, bambini.

Le modalità descritte dai testimoni ricordano un’oscenità organizzata: viaggi organizzati da Trieste o Milano fino a Belgrado con voli charter della compagnia Aviogenex, poi trasporto nelle postazioni militari attorno a Sarajevo. Le tariffe variavano in base al “tipo di preda”.

I più cinici tra gli informatori parlano addirittura di un “listino”: i bambini costavano di più, perché “più difficili da colpire”.

È difficile persino scriverlo, ma ancora più difficile è accettare che simili atrocità siano rimaste sepolte per trent’anni.

Oggi la giustizia italiana prova a riaprire quella pagina nera, con l’ipotesi di omicidio volontario aggravato da crudeltà e motivi abietti. Ma, anche se non verrà mai trovato un colpevole, il solo sospetto basta a incrinare l’immagine di un’Italia che si è sempre raccontata pacifista e umanitaria nei Balcani.

Dietro quella maschera c’era forse un’altra Italia: l’Italia delle nostalgie fasciste, delle armi clandestine, dei camerati che andavano “a vedere la guerra da vicino”.

Un’Italia che non voleva liberare nessuno, ma solo comprare l’ebbrezza di uccidere.

Il “turismo del cecchino” non è solo la degenerazione di una mente malata: è l’espressione estrema del capitalismo della violenza, dove tutto — anche la vita altrui — diventa merce.

L’orrore privatizzato. L’omicidio a pagamento.

Chi oggi minimizza o ride di questa inchiesta dimentica che Sarajevo è stata la Stalingrado morale d’Europa: una città assediata per 1.425 giorni, dove 11 mila civili morirono sotto i colpi dei cecchini.

E che fra quei cecchini, secondo le carte che la magistratura milanese sta vagliando, potrebbero esserci stati anche uomini con passaporto italiano.

Trent’anni dopo, non è solo una questione di tribunali. È una questione di memoria.

Perché se davvero l’uomo può pagare per uccidere, allora la barbarie non è finita: si è solo travestita da civiltà.