Continua la folle corsa al riarmo
L’accordo tra Leonardo e la turca Baykar per la produzione di droni da guerra rilancia l’industria italiana della difesa, ma solleva interrogativi morali e politici: stiamo costruendo autonomia strategica o diventando semplici esecutori nella corsa agli armamenti imposta da Stati Uniti e Germania? In un tempo che torna a forgiare armi, il Vangelo ricorda che la vera forza di un popolo non è nei droni, ma nella capacità di trasformare le spade in vomeri.
Il profeta Isaia (2,4) aveva scritto: «Forgeranno le loro spade in vomeri e le loro lance in falci». Era un’immagine di pace, la visione di un mondo in cui le energie spese per la guerra sarebbero state restituite alla terra, alla vita, al lavoro. Oggi, guardando all’Italia e all’Europa, sembra che stia accadendo l’inverso: stiamo trasformando i vomeri in spade, le fabbriche in arsenali, le officine civili in linee di produzione militare.
L’accordo fra Leonardo e la turca Baykar per la creazione di droni da guerra, anche imbarcati, appare come il simbolo di questa inversione morale. Non è solo un’intesa industriale: è una scelta di campo. L’Italia, un tempo crocevia di culture e diplomazie, ora punta sull’aerospazio bellico come frontiera della competitività. Da Grottaglie a Ronchi dei Legionari, da Torino a Roma Tiburtina, i nuovi poli dell’industria nazionale si preparano a costruire velivoli che potranno essere impiegati in scenari di conflitto, magari in mari e cieli sempre più contesi.
Si parla di “autonomia strategica europea”, ma l’impressione è che l’Italia sia piuttosto pecora dietro la Germania — che, dopo il tramonto della sua potenza automobilistica, tenta di reinventarsi leader militare-industriale — e serva fedele degli Stati Uniti, che spingono gli alleati a riarmarsi, a investire in tecnologie dual use, a sostenere la corsa agli armamenti dronizzati. E ora, come se non bastasse, circolano anche voci di una “chiamata volontaria” alle armi per i nati dal 2008 in poi, una misura che in altri tempi avrebbe provocato indignazione, e che oggi passa quasi sotto silenzio, in nome della “preparazione nazionale”.
Il rischio è che, nel nome della sicurezza, si perda la pace; che nel nome della difesa, si alimenti la paura. La civiltà occidentale, che ha costruito le sue radici cristiane sul “non uccidere”, sembra oggi piegarsi all’idea che la tecnologia possa giustificare tutto: anche la fabbricazione di strumenti di morte “intelligenti”.
Eppure l’Italia, patria di san Francesco, di Giorgio La Pira, di Giovanni XXIII — l’uomo della Pacem in terris — non può dimenticare che il Vangelo resta più forte delle strategie militari. L’annuncio cristiano è l’unica voce che osa dire l’impensabile: che la sicurezza non nasce dal possesso delle armi, ma dalla giustizia e dal dialogo; che la libertà non si difende con i droni, ma con il coraggio di costruire pace.
Per questo, davanti a una fabbrica che riconverte linee civili in militari, ogni cittadino e ogni credente dovrebbe domandarsi: stiamo davvero difendendo la vita o stiamo solo imparando meglio a distruggerla?
L’Italia non ha bisogno di essere “pecora” né della Germania né degli Stati Uniti. Ha bisogno di tornare profeta, come Isaia, e dire — anche in solitudine — che il futuro non può essere un cielo pieno di droni, ma una terra piena di uomini liberi.
