I risultati di un sondaggio agghiacciante

C’è qualcosa di più inquietante del fuoco che brucia Gaza: è il fuoco che arde nei cuori, alimentato non solo da propaganda e paura, ma da una pericolosa metamorfosi dell’opinione pubblica israeliana. Il sondaggio condotto dai professori Tamir Sorek e Shay Hazkani – che rivela un sostegno dell’82% tra gli ebrei israeliani all’espulsione dei palestinesi da Gaza – non è un semplice dato statistico. È uno specchio. E ciò che riflette è un volto deformato dal trauma, dalla vendetta e da un’ideologia che flirta apertamente con il genocidio.

Non sono più solo frange estremiste a parlare di “trasferimento”. L’idea di espellere popolazioni intere, di radere al suolo interi quartieri con giustificazioni bibliche, si è normalizzata. Quasi la metà degli intervistati – il 47% – approva l’uso della violenza indiscriminata sul modello di Gerico, dove “non si risparmiò nessuno”. Non siamo più nel campo della retorica esasperata, ma in quello dell’accettazione di crimini contro l’umanità come opzione legittima.

La scomparsa dell’empatia

Fino a pochi anni fa, episodi di violenza estrema come il rogo della famiglia Dawabsheh a Duma (2015) o il linciaggio di Mohammed Abu Khdeir (2014) scuotevano l’opinione pubblica israeliana. Provocavano vergogna, interrogativi, autocritica. Oggi, quei sentimenti sembrano dissolti. Lo shock morale si è consumato, sostituito da un meccanismo di legittimazione della brutalità, come se l’attacco di Hamas del 7 ottobre avesse chiuso ogni spazio alla pietà.

Ma la pietà è l’ultima barriera contro la barbarie. Quando un popolo non riesce più a distinguere tra giustizia e vendetta, tra sicurezza e vendicazione, allora l’anima stessa della nazione è in pericolo. Il paragone con la Jugoslavia degli anni ’90, evocato nell’articolo di Haaretz, è più che legittimo. Lì, l’incitamento etnico alimentato da leader corrotti e rabbiosi ha aperto le porte al genocidio. Il dolore e l’umiliazione della guerra non bastano a giustificare l’odio sistemico. Mai.

Quando la religione diventa ideologia di sterminio

Il dato forse più allarmante è la crescente correlazione tra osservanza religiosa e approvazione delle politiche più estreme. Non si tratta di spiritualità, ma di un uso ideologico della religione per giustificare l’inevitabilità della violenza. È il volto teologico del colonialismo. Come nella conquista di Canaan, così oggi a Gaza: non c’è spazio per gli “altri”, se non come ostacoli da rimuovere.

È qui che la politica si fa idolatria: quando la propria sicurezza diventa assoluta, e ogni altro popolo viene disumanizzato. “Senza una Nakba non c’è vittoria”, recitano alcuni striscioni della destra israeliana. Frasi che celebrano la pulizia etnica come virtù patriottica, mentre il governo si limita a tacere o a soffiare sul fuoco.

Un sismografo dell’anima collettiva

Il sondaggio non è il problema, ma il sintomo. È una sveglia spietata, ma necessaria. I dati non vanno nascosti per timore di peggiorare il clima: vanno compresi, interrogati, denunciati. Ogni percentuale rappresenta una coscienza, una scelta, un destino collettivo. Se l’82% degli ebrei israeliani pensa che i palestinesi debbano essere espulsi, allora il problema non è solo Netanyahu o Ben Gvir. È molto più profondo. È la trasformazione della società israeliana in una comunità sempre più chiusa, radicalizzata, insensibile.

Eppure, la storia insegna che anche i popoli che hanno toccato l’abisso possono risalire. Lo hanno fatto i serbi, i ruandesi, i cambogiani. Lo hanno fatto i tedeschi. La condizione è una: che la verità venga detta. Che ci sia chi, come i ricercatori di questo studio, ha il coraggio di guardare dentro la ferita, anche se brucia. Anche se sporca.

L’alternativa: spezzare il ciclo

Non si costruisce pace sull’odio. Né si vincono le guerre sterminando civili. Ogni bambino bruciato, ogni donna umiliata, ogni sfollato lasciato morire di fame o senza tetto non è una vittoria: è una sconfitta morale e politica.

Il tempo per il cambiamento è adesso. Ma servono leader che non vogliano solo sopravvivere alla prossima elezione, bensì alla Storia. Servono ebrei che ricordino che essere popolo eletto non è un privilegio, ma una responsabilità. Servono palestinesi che non cedano alla disperazione, e una comunità internazionale che non confonda complicità con solidarietà.

Il mondo deve ascoltare. Il mondo deve parlare. Perché ogni silenzio, oggi, è un voto in quel 82%.

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