Il 25 luglio oltre mille rabbini da tutto il mondo – ortodossi, masortì, liberali – hanno firmato una lettera aperta rivolta al governo israeliano, denunciando una crisi che non è solo umanitaria, ma spirituale e morale: “Il popolo ebraico è di fronte a una grave crisi morale che minaccia il fondamento stesso del giudaismo”. Parole forti, accorate, scritte nel nome della Torah e della sua visione dell’essere umano come immagine di Dio.

Una parte consistente della leadership politica israeliana – a cominciare dal primo ministro Benjamin Netanyahu – continua a godere del sostegno di frange religiose ultraortodosse, che benedicono ogni azione, anche la più discutibile, in nome della sicurezza o della restaurazione dell’identità ebraica. Ma questa alleanza tra ideologia di potere e religione tribale rischia di oscurare le voci profetiche dell’ebraismo, che oggi gridano – anche a costo dell’arresto, come accaduto a New York e Washington – contro l’ingiustizia e la violenza contro i civili palestinesi.

Il dramma di Gaza interroga la coscienza religiosa

La lettera dei rabbini è equilibrata: riconosce che Israele combatte contro organizzazioni terroristiche reali e feroci, come Hamas e Hezbollah. Ma non accetta che questa lotta diventi copertura ideologica per l’annientamento sistematico della popolazione civile e per le violenze dei coloni in Cisgiordania, spesso protetti o tollerati dallo Stato.

I rabbini parlano in nome della vita innocente, dell’obbligo morale di lasciar passare gli aiuti umanitari, della necessità di fermare i crimini compiuti da alcuni militari o da coloni armati. Denunciano l’uso della fame come arma di guerra, e le dichiarazioni incendiarie di ministri del governo israeliano che invocano deportazioni e punizioni collettive.

Il vero ebraismo non è nazionalista

È qui che si pone il nodo: il vero ebraismo non è mai stato un nazionalismo etnico o ideologico. È sempre stato, nel suo cuore, una fede profetica, esodale, compassionevole, fondata sulla memoria della schiavitù, sulla giustizia per lo straniero, sulla dignità del più debole. Lo ricorda bene il rabbinato internazionale che ha firmato la lettera: “Abbiamo imparato amaramente dalla storia, come popolo perseguitato e marginalizzato. Per questo non possiamo tollerare che oggi, in nostro nome, si neghi l’umanità di altri”.

Non è quindi sorprendente che siano proprio alcuni rabbini ortodossi e masortì americani, francesi, britannici e israeliani a guidare questa presa di coscienza. Mentre alcuni gruppi ultraortodossi, stretti intorno al potere, sembrano dimenticare la Torah per difendere interessi politici o egemonie culturali.

Il silenzio dei giusti è complicità

Questa riflessione riguarda tutti noi. Anche noi cristiani, chiamati ogni giorno a distinguere tra fede vera e strumentalizzazione religiosa. Anche noi italiani, quando osserviamo le alleanze internazionali che legittimano ogni azione del governo israeliano in nome della lotta al terrorismo, senza interrogarsi sul prezzo umano, morale e spirituale di questa logica.

Non si tratta di negare il diritto di Israele a difendersi. Ma di dire che non tutto ciò che è militare è morale, e che non tutto ciò che è religiosamente sostenuto è conforme al volto di Dio. Quando la religione viene usata per giustificare l’oppressione, allora si tradisce la radice stessa della fede.

Una crisi che riguarda anche il cristianesimo

Le parole dei rabbini – “Ogni persona è creata a immagine di Dio” – risuonano come un monito universale. In una stagione in cui anche alcune esperienze cristiane si irrigidiscono in chiavi identitarie o politiche, dimenticando l’umiltà evangelica, la voce ebraica che si alza per Gaza è un segno profetico. Non ci può essere pace senza giustizia, né giustizia senza misericordia.

Il sostegno cieco al governo Netanyahu da parte di frange religiose radicalizzate non rappresenta l’intero popolo ebraico, e men che meno la sua eredità spirituale. I rabbini che parlano di compassione, giustizia e pace sono i veri eredi della Torah, e forse anche i nostri alleati nel custodire la speranza di un’umanità più degna di Dio.