A quasi sessant’anni dalla risoluzione 242 dell’Onu, il conflitto resta irrisolto. Israele gode oggi di una forza senza precedenti, ma senza un vero compromesso il rischio è un futuro di guerra permanente e di isolamento internazionale.
Più di mezzo secolo dopo la guerra dei Sei Giorni e la risoluzione 242 dell’Onu, il conflitto israelo-palestinese sembra sospeso in un tempo immobile. Israele e Palestina non sono mai stati così lontani, eppure non sono mai stati così obbligati a guardarsi negli occhi.
Oggi Israele gode di una posizione di forza inedita: confini relativamente sicuri, nemici storici come Egitto e Giordania pacificati, la minaccia iraniana contenuta, e accordi di normalizzazione con diversi Paesi arabi. Ma questa condizione non durerà in eterno. Le operazioni militari a Gaza e l’espansione degli insediamenti in Cisgiordania hanno già iniziato a incrinare il sostegno internazionale, persino negli Stati Uniti e in Europa. La narrativa di Israele come democrazia assediata rischia di trasformarsi, agli occhi di molti, in quella di uno Stato che nega i diritti di milioni di persone.
La verità è semplice e dura: senza una prospettiva di Stato palestinese, Israele si condanna a un conflitto permanente. Non basta la forza delle armi per garantire sicurezza; serve una politica che trasformi il nemico in interlocutore. È accaduto con l’Egitto, con la Giordania, perfino in Irlanda del Nord: la pace arriva quando si apre una via politica, non quando si tenta di annientare l’altro.
Le resistenze sono molteplici: la destra israeliana vede nei Territori una missione ideologica, Hamas continua a rifiutare l’esistenza di Israele, i palestinesi sono divisi e privi di leadership credibile. Ma rifiutare la soluzione a due Stati significa rinunciare all’identità stessa di Israele: o Stato democratico, o Stato ebraico, perché l’annessione permanente di milioni di palestinesi senza pieni diritti è incompatibile con entrambe le cose.
In questo quadro, la comunità internazionale non può restare spettatrice. Gli Stati Uniti e l’Europa, insieme ai Paesi arabi, hanno il dovere di accompagnare un processo che non sarà rapido, ma che deve almeno restare possibile. Oggi siamo vicini a un punto di non ritorno: gli insediamenti avanzano, le ferite di Gaza si moltiplicano, la sfiducia cresce.
Abba Eban, storico ministro degli Esteri israeliano, disse che gli arabi “non perdono mai un’occasione per perdere un’occasione”. Ma oggi questa frase descrive anche Israele. Mai il Paese è stato più sicuro, mai più forte, mai più vicino ad avere condizioni favorevoli per un compromesso. Eppure mai così tentato di rifiutarlo.
La posta in gioco non è solo il destino dei palestinesi, ma il futuro stesso di Israele: continuare a vivere come una democrazia riconosciuta e rispettata o trasformarsi in un paria isolato. Per entrambe le parti vale un monito evangelico che oggi suona più che mai attuale: «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9).