La dichiarazione del Fronte delle riforme in Iran, che ha chiesto al governo di sospendere l’arricchimento dell’uranio per aprire negoziati diretti con gli Stati Uniti, sembra a prima vista una resa politica. Dopo i bombardamenti israeliani e americani di giugno, che hanno colpito duramente l’impianto di Fordo e decimato figure chiave del programma nucleare, ci si potrebbe aspettare che Teheran non abbia più carte da giocare. Eppure, la realtà è molto più complessa.
La guerra di dodici giorni con Israele ha mostrato al mondo due verità opposte ma complementari: da un lato, le vulnerabilità delle installazioni iraniane; dall’altro, la capacità sorprendente di Teheran di colpire e mettere in difficoltà Israele con la sua guerra asimmetrica di droni e missili.
La crisi del mito Iron Dome
Se c’è un elemento che ha segnato uno spartiacque, è stato l’uso massiccio e coordinato dei droni iraniani. L’arsenale di Teheran, già sperimentato con successo in Ucraina a fianco della Russia, ha messo sotto pressione l’Iron Dome israeliano. Il sistema di difesa antimissile, a lungo presentato come una barriera insormontabile, si è trovato saturato da attacchi multipli e simultanei. Ogni intercettore israeliano costa decine di migliaia di dollari, mentre un drone Shahed costa poche centinaia: una sproporzione che rende insostenibile un conflitto prolungato per Tel Aviv.
La sospensione delle ostilità da parte israeliana non è stata quindi una scelta di generosità politica, ma il riconoscimento di un costo strategico ed economico non più sostenibile. Israele ha scoperto di non poter reggere a lungo una guerra di logoramento con l’Iran.
Perché allora sospendere l’arricchimento?
In questo quadro, la richiesta dei riformisti iraniani appare sotto una luce diversa. Non è il gesto di chi depone le armi, ma di chi sa di aver già mostrato i muscoli. Il nucleare, infatti, non è più l’unico deterrente credibile. Teheran ha dimostrato di possedere la capacità di paralizzare Israele senza bomba atomica, utilizzando tecnologie più agili, diffuse e difficili da neutralizzare.
La proposta di sospendere l’arricchimento dell’uranio e lasciare pieno accesso all’AIEA può quindi essere letta come un’abile mossa tattica: guadagnare sollievo economico dalle sanzioni, aprire un canale di dialogo diretto con Washington e, allo stesso tempo, conservare intatta la leva strategica della guerra asimmetrica.
Un equilibrio nuovo
Il nodo centrale non è più se l’Iran costruirà o meno la bomba, ma come userà le risorse diplomatiche e militari di cui già dispone. Il paese si trova stretto tra una popolazione stremata dalla povertà, dalle interruzioni di corrente e dalla siccità, e un establishment politico-militare che vuole mantenere il controllo. In questa tensione, i riformisti vedono una via d’uscita: trasformare la forza dimostrata sul campo in capitale politico da spendere nei negoziati.
Israele e Stati Uniti davanti a un bivio
Resta da capire se Washington e Tel Aviv vorranno cogliere questa occasione. Da un lato, l’Iran non ha mai avuto così tante difficoltà economiche e sociali; dall’altro, ha mostrato che qualsiasi tentativo di guerra totale contro di esso rischia di trasformarsi in un boomerang.
Per questo la mossa dei riformisti non è affatto una “carta di sottomissione”, come l’hanno definita i media governativi iraniani, ma piuttosto una proposta di scambio: meno nucleare in cambio di meno isolamento, senza intaccare l’arma vera che oggi dà a Teheran rilevanza internazionale, i droni.