C’è qualcosa di profondamente inquietante nel dibattito che attraversa oggi il Belgio sul fine vita. Non tanto — o non solo — per le proposte legislative sempre più estensive sull’eutanasia, ma per la frattura che si è ormai consumata all’interno dello stesso mondo cattolico. Da una parte i vescovi, che continuano a richiamare con chiarezza il valore indisponibile della vita umana; dall’altra una grande mutualità cattolica che sembra invece remare in senso opposto, sostenendo, direttamente o indirettamente, una concezione del “morire bene” che coincide sempre più con il diritto a farsi togliere di mezzo.
Il contrasto non è marginale. È strutturale. E dice molto del tempo che stiamo vivendo.
I vescovi belgi hanno ribadito più volte che l’eutanasia non è una risposta alla sofferenza, ma una sconfitta della cura, della relazione, della solidarietà. Non è un atto di libertà, ma il segno di una società che non sa più accompagnare la fragilità. La loro posizione non nasce da un moralismo astratto, ma da un’antropologia precisa: la vita non vale perché efficiente, autonoma o produttiva, ma perché umana. Sempre. Anche quando è segnata dalla malattia, dalla disabilità, dalla senescenza.
Eppure, mentre l’episcopato parla di limite, di accompagnamento, di cure palliative, una parte significativa del cattolicesimo istituzionale belga — incarnata dalla mutualità fiamminga— sembra aver interiorizzato un altro paradigma: quello dell’autodeterminazione assoluta, dove la sofferenza diventa un errore da eliminare e la dipendenza dagli altri una colpa da espiare.
Qui il problema non è più solo etico. È storico.
Il Novecento europeo conosce già questa china. Quando una società decide che alcune vite non sono più degne di essere vissute, il passo successivo non è mai neutrale. Cambiano i linguaggi — oggi si parla di “dolce morte”, di “atto d’amore”, di “scelta consapevole” — ma la logica resta la stessa: selezionare chi può restare e chi no. Non più con la violenza brutale dell’eugenetica nazista, ma con una pressione culturale molto più sottile e, proprio per questo, più pericolosa.
Non si accetta più il limite. Non si accetta la malattia. Non si accetta l’invecchiamento. La senescenza diventa uno scandalo sociale, un peso economico, un fallimento personale. E allora la morte non è più l’orizzonte naturale della vita, ma una soluzione tecnica a un problema umano.
Che una mutualità che si definisce cattolica finisca per legittimare questa visione è il vero cortocircuito. Perché il cattolicesimo, nel suo nucleo più profondo, non è la religione dell’efficienza né dell’autonomia assoluta, ma dell’Incarnazione: Dio che assume la fragilità, non la cancella. Un Dio che non fugge la sofferenza, ma la attraversa. Un Dio che muore, non perché la vita abbia perso valore, ma perché ogni vita — anche la più ferita — ne abbia uno infinito.
Il punto, allora, non è semplicemente essere “a favore” o “contro” l’eutanasia. Il punto è decidere quale idea di uomo vogliamo difendere. Se l’uomo è solo un individuo autosufficiente, allora quando non lo è più può essere accompagnato all’uscita. Se invece l’uomo è relazione, dipendenza reciproca, storia condivisa, allora la fragilità non è un errore di sistema, ma il luogo in cui una civiltà si misura.
I vescovi belgi, in questo senso, non difendono un principio confessionale. Difendono una soglia antropologica. La mutualità, invece, rischia di tradire proprio ciò che dovrebbe incarnare: una solidarietà che non seleziona, una cura che non abbandona, una compassione che non uccide.
Quando la morte diventa una prestazione sanitaria e la sofferenza una colpa da eliminare, non siamo davanti a una conquista di civiltà. Siamo davanti a una regressione. Silenziosa, educata, ben vestita. Ma non meno radicale di quelle che l’Europa ha già conosciuto.
E la storia, prima o poi, presenta sempre il conto.
