Una madre condannata all’ergastolo per aver venduto la sua bambina
Nel volto fermo e muto di Racquel Smith, condannata all’ergastolo per aver venduto sua figlia di sei anni in cambio di poco più di mille dollari, si riflette l’abisso. Il verdetto pronunciato giovedì in un’aula improvvisata in un centro comunitario di Saldanha Bay, sulla costa occidentale del Sudafrica, ha fatto il giro del Paese. Ma l’eco morale di questo crimine va ben oltre i confini nazionali: interroga ogni società su che cosa significa aver perso il senso della maternità, della famiglia, dell’umano.
Joshlin Smith, la bambina scomparsa a febbraio 2024, non è mai stata ritrovata. Non ha potuto testimoniare. Non ha potuto raccontare chi l’ha toccata, chi l’ha portata via, chi l’ha comprata. Lo Stato ha parlato al suo posto, cercando di ricostruire, con ogni mezzo possibile, una storia che si aggrappa ai pochi frammenti lasciati da adulti che hanno scelto il denaro e la droga al posto della cura.
È una madre che vende la figlia il punto più tragico e simbolico di una crisi che è familiare, culturale e sistemica. Non ci sono alibi. Non ci sono attenuanti. Il giudice Nathan Erasmus ha detto: “Non ha mostrato rimorso, ha mentito fino alla fine”. E anche se la giustizia ha compiuto il suo passo, la verità resta incompiuta. Joshlin è ancora scomparsa. E finché non sapremo dov’è, nessuna condanna potrà restituire la pace.
Il traffico dei bambini: una piaga taciuta
Ci si indigna – e giustamente – di fronte a una madre giudicata colpevole di schiavitù infantile. Ma troppo spesso ci si dimentica che milioni di minori sono vittime di tratta ogni anno, spesso all’interno dei confini familiari, comunitari, religiosi, in contesti di miseria o assuefazione. Il Sudafrica è solo uno dei tanti scenari. In troppe aree del mondo, i bambini diventano merce. Venduti, scambiati, dati in pegno. Il volto pulito di Joshlin è lo stesso di tanti piccoli invisibili.
Il caso ha scosso l’opinione pubblica sudafricana non solo per l’orrore del gesto, ma perché è avvenuto in diretta nazionale. Il processo, seguito dalle televisioni e celebrato fuori dai tribunali ordinari, è diventato un teatro collettivo di dolore e coscienza, un momento in cui un Paese guarda dentro sé stesso.
Ma il rischio è che, dopo il clamore, si torni a dimenticare. A relegare Joshlin tra i tanti volti scomparsi, coperti da un manifesto e poi da silenzio.
Una domanda che ci riguarda: dove sono i nostri figli?
Il caso di Joshlin tocca anche noi. Perché chi traffica minori non è sempre “l’altro mondo”, non è sempre lontano. Ci tocca nel cuore della nostra cultura della scarto, dove il valore di una vita può diventare relativo. E tocca la Chiesa, le famiglie, le istituzioni educative, chiamate a difendere l’infanzia in ogni angolo della Terra.
Come ci ha ricordato spesso Papa Francesco, la tratta è “una ferita nel corpo dell’umanità contemporanea”. Non basta condannare. Occorre prevenire, educare, denunciare. Occorre anche riscattare l’idea di maternità: non come possesso, ma come custodia. Perché non c’è niente di più sacro e fragile di un bambino che si fida. E niente di più violento del tradimento da parte di chi avrebbe dovuto proteggerlo.
Un grido che chiede risposta
“Non sappiamo dove sia, cosa mangia, come viene trattata”, ha detto la nonna paterna, Rita Yon. Una frase che pesa più di ogni analisi. Perché ci ricorda che una bambina manca all’appello dell’umanità, e che il dolore di chi la cerca non può essere archiviato insieme agli atti processuali.
Finché non si saprà la verità, finché Joshlin non avrà una tomba o una salvezza, finché i fratellini continueranno a chiedere “dov’è nostra sorella?”, la giustizia resterà mutilata. E il nostro dovere – di cristiani, cittadini, umani – sarà quello di non voltare lo sguardo.
E1 incredibile quello che succede. Molto triste la storia.