Omicidio di Villa Pamphili. La conferma del Dna su Francis Kaufmann chiude il cerchio delle indagini, ma apre una ferita che riguarda tutti.

L’esame del DNA ha confermato che Francis Kaufmann, alias Rexal Ford, è il padre della piccola Andromeda, la bimba di appena undici mesi trovata morta, soffocata, tra il verde di Villa Pamphili il 7 giugno scorso. Il volto di un crimine che ha paralizzato la coscienza civile si delinea con sempre maggiore precisione: secondo l’impianto accusatorio, è stato proprio lui, il padre, a strangolare la bambina. E – come se non bastasse – è sospettato di aver ucciso anche la madre della piccola, Anastasia Trofimova, 28 anni, i cui resti sono stati ritrovati in circostanze ancora tutte da chiarire. Un duplice omicidio. Un atto che sfida ogni logica umana.

Kaufmann, arrestato in Grecia, oggi è detenuto a Rebibbia. Ha scelto di tacere davanti al gip. Ma il suo silenzio è assordante. Lo è perché, davanti a un delitto che toglie le parole persino a chi le usa per mestiere, ci si aspetterebbe almeno un gesto di umanità, un cedimento, un riconoscimento di colpa. Invece, come troppo spesso accade, l’accusato si avvale della facoltà di non rispondere, lasciando al freddo delle indagini giudiziarie il compito di raccontare l’orrore.

Ma questa non è solo una storia giudiziaria. È una storia di dolore sociale, di solitudine estrema, di mancanza di reti umane. Nessuno ha saputo fermare il male prima che esplodesse. Nessuno ha potuto intercettare il pericolo. Una donna e una bambina sono state uccise con una ferocia che non può essere spiegata solo con categorie cliniche. Qui c’è un fallimento collettivo: della cultura della vita, della protezione dell’infanzia, della cura delle fragilità psichiche e affettive.

Anastasia era una giovane madre, con origini russe, forse sola, forse in cerca di stabilità. Andromeda era la sua bambina, il simbolo di una speranza. E invece il loro cammino è stato spezzato da un uomo che ha agito – se sarà confermato – con la logica del dominio assoluto: quella che trasforma gli affetti in possesso e la paternità in potere mortifero.

Non basta indignarsi. Serve interrogarsi. Serve educare. Serve fare della giustizia un argine, ma anche della prevenzione una priorità. Perché ogni storia come questa non è solo cronaca: è un grido contro l’indifferenza, un appello a rimettere al centro il valore della vita, ogni vita, anche quella più silenziosa, più indifesa, più dimenticata.

Chi ha il potere, chi ha la parola pubblica, chi ha strumenti culturali, sociali, educativi, non può sottrarsi. Il silenzio del presunto assassino non deve diventare anche il nostro.